“La Chiesa è forse diventata inutile per la società ?”

“La Chiesa è forse diventata inutile per la società ?”, si chiede il cardinale Sarah.

 Meditazione da SER Cardinal Sarah per Le Figarò, dal titolo Robert Sarah: «L’épidémie du Covid-19 ramène l’Église à sa responsabilité première: la foi»

La Chiesa ha ancora un posto in un’epidemia nel 21 ° secolo? A differenza di secoli fa, la maggior parte delle cure mediche è ora fornita dallo stato e dal personale sanitario. La modernità ha i suoi eroi secolarizzati in camice bianco e sono ammirevoli. Non ha più bisogno di battaglioni di beneficenza di cristiani per prendersi cura dei malati e seppellire i morti. La Chiesa è diventata inutile per la società?

Il virus Covid-19 riporta i cristiani alle origini. In effetti, la Chiesa è da tempo entrata in una relazione distorta con il mondo. Di fronte a una società che affermava di non averne bisogno, i cristiani, attraverso la pedagogia, cercavano di dimostrare che potevano esservi utili. La Chiesa si è dimostrata educatrice, madre dei poveri, “esperta di umanità” nelle parole di Paolo VI. Aveva ragione a farlo. Ma a poco a poco i cristiani finirono per dimenticare il motivo di questa competenza. Hanno finito per dimenticare che se la Chiesa può aiutare l’uomo ad essere più umano, alla fine è perché ha ricevuto da Dio le parole della vita eterna.

La Chiesa è impegnata nella lotta per un mondo migliore. Ha giustamente sostenuto l’ecologia, la pace, il dialogo, la solidarietà e l’equa distribuzione della ricchezza. Tutti questi combattimenti sono giusti. Ma potrebbero far dimenticare la parola di Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo”. La Chiesa ha messaggi per questo mondo, ma solo perché ha le chiavi dell’altro mondo. I cristiani a volte hanno pensato alla Chiesa come aiuto dato da Dio all’umanità per migliorare la loro vita qui sulla terra. E non mancavano di argomenti poiché la fede nella vita eterna fa luce sul modo giusto di vivere in questo secolo.

Il virus Covid-19 ha esposto una malattia insidiosa che stava divorando la Chiesa: pensava di essere “di questo mondo”. Voleva sentirsi legittima ai suoi occhi e secondo i suoi criteri. Ma è emerso un fatto radicalmente nuovo. La modernità trionfante è crollata prima della morte. Questo virus ha rivelato che, nonostante le sue assicurazioni e la sua sicurezza, il mondo sottostante rimane paralizzato dalla paura della morte. Il mondo può risolvere le crisi sanitarie. Arriverà sicuramente alla fine della crisi economica. Ma non risolverà mai l’enigma della morte. La sola fede ha la risposta.

Illustriamo questo punto in modo molto concreto. In Francia, come in Italia, la questione delle case di riposo, il famoso Ehpad, era un punto cruciale. Perché? Perché la questione della morte è nata direttamente. I residenti anziani dovrebbero essere confinati nelle loro stanze a rischio di morire di disperazione e solitudine? Dovrebbero rimanere in contatto con le loro famiglie a rischio di morire di virus? Non sapevamo come rispondere.

Lo stato, immerso in un secolarismo che sceglie in linea di principio di ignorare la speranza e di restituire i culti al dominio privato, è stato condannato al silenzio. Per lui, l’unica soluzione era fuggire la morte fisica ad ogni costo, anche se ciò significava condannare la morte morale. La risposta potrebbe essere solo una risposta di fede: accompagnare gli anziani verso una probabile morte, con dignità e soprattutto con la speranza della vita eterna.

L’epidemia ha colpito le società occidentali nel punto più vulnerabile. Erano organizzati per negare la morte, nasconderla, ignorarla. È entrata dalla grande porta! Chi non ha visto questi giganteschi obitori a Bergamo o Madrid? Queste sono le immagini di una società che recentemente ha promesso un uomo aumentato e immortale.

Le promesse della tecnologia consentono di dimenticare la paura per un momento, ma finiscono per essere illusorie quando colpisce la morte. Perfino la filosofia dà solo un po’ di dignità a una ragione umana sommersa dall’assurdità della morte. Ma non è in grado di consolare i cuori e dare un significato a ciò che sembra esserne definitivamente privato.

Di fronte alla morte, non esiste una risposta umana che regga. Solo la speranza di una vita eterna può superare lo scandalo. Ma quale uomo oserà predicare la speranza? Ci vuole la parola rivelata di Dio per osare di credere in una vita senza fine. Hai bisogno di una parola di fede per osare di sperare in te stesso e nella tua famiglia. La Chiesa cattolica si rinnova quindi con la sua responsabilità primaria. Il mondo si aspetta da lei una parola di fede che le permetterà di superare il trauma di questo faccia a faccia con la morte che ha appena vissuto. Senza una chiara parola di fede e speranza, il mondo può sprofondare in una morbosa colpa o rabbia indifesa per l’assurdità della sua condizione. Solo questo può permettergli di dare un senso a queste morti di persone care, che sono morte in solitudine e sono state sepolte in fretta.

Ma poi la Chiesa deve cambiare. Deve smettere di avere paura di scioccare. Deve rinunciare a pensare a se stesso come a un’istituzione del mondo. Deve tornare alla sua unica ragion d’essere: la fede. La Chiesa è lì per annunciare che Gesù ha vinto la morte con la sua risurrezione. Questo è il cuore del suo messaggio: “Se Cristo non è stato risuscitato, la nostra predicazione è vana, la nostra fede è ingannevole e noi siamo il più miserabile di tutti gli uomini”. (1 Corinzi 15, 14-19). Tutto il resto è solo una conseguenza.

Le nostre società emergeranno indebolite da questa crisi. Avranno bisogno di psicologi per superare il trauma di non poter accompagnare gli anziani e i morenti nella loro tomba, ma avranno ancora più bisogno di sacerdoti che insegneranno loro a pregare e sperare. La crisi rivela che le nostre società, senza saperlo, soffrono profondamente di un male spirituale: non sanno dare senso alla sofferenza, alla finitudine e alla morte.

* Il cardinale Sarah è prefetto emerito della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti all’interno della Curia romana.

L’umanesimo estinto dell’uomo senza Dio

Michelangelo - Creazione di Adamo (Cappella sistina)

“La creazione di Adamo” opera di Michelangelo Buonarroti, Cappella Sistina

Da troppo tempo il pensiero filosofico esclude dalla speculazione ogni valutazione sull’origine dell’universo come atto creativo Questo impedisce di fatto ogni approccio all’ambiente come dono di cui è possibile fruire con rispetto e promuove forme di sfruttamento tecnicistico e utilitaristico

di Vittorio Possenti

Il pensiero contemporaneo e la filosofia italiana si indirizzano tuttora fortemente verso il mondo umano e le scienze dell’uomo: verso l’etica, la politica, il diritto, l’economia. La cosa non dispiace, eppure questo grande movimento lascia a lato la questione dell’essere e la ricerca di un senso ultimo, ritenendo che la realtà più reale di altre sia la storia. Siamo dinanzi a una filosofia antropocentrica che in genere non guarda oltre l’uomo e il suo mondo storico, secondo un indirizzo che potremmo chiamare illuministico e storicistico, poiché l’illuminismo e lo storicismo di un tempo avevano cercato una concentrazione sulla umanità occidentale equiparata alla totalità. Peraltro l’antropocentrismo si rivela inadatto a render conto dell’intero e anzi compie una secca operazione di chiusura, di cui è segno l’estrema scarsità di riflessione sulla creazione quale prima rivelazione divina all’uomo. Tra i compiti della filosofia vi è quello di educare l’essere umano a un atteggiamento di fruizione, compresa la contemplazione o esperienza del bello, al posto dell’atteggiamento utilitaristico di dominio e di sfruttamento. Diventa ancor più urgente recuperare il senso del creato come massimo dono di Dio, mentre l’uomo contemporaneo vede solo ciò che egli ha prodotto. L’uomo percepisce che tutto quello che lo circonda è stato fatto da lui, e pertanto si ritiene al principio di tutto, viceversa la fede gli dice che tutto viene da Dio. Di ciò si era accorto Hegel oltre due secoli fa. Benedetto XVI nel Discorso al Reichstag (Berlino, 22 settembre 2011) ha espresso perfettamente la situazione dicotomica in cui versiamo: «La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra e imparare a usare tutto questo in modo giusto». Aderire alla verità della creazione come dono divino favorisce il distacco da una concezione prometeica dell’uomo e tecnica della natura come serbatoio da sfruttare. Si deve con rammarico riconoscere che il senso autentico della creazione del cosmo e della creatura spirituale è da tempo assai evanescente nella cultura, nella scienza e in certo modo anche nella teologia: se vi è un terreno bisognoso di un vigoroso lavoro filosofico e teologico è proprio questo. La triade “Dio-uomo-mondo” in cui si racchiude il nostro destino, si è ridotta nella modernità avanzata al solo secondo termine, nel segno dell’antropocentrismo segnalato; e solo da poco si avverte un qualche recupero del nesso uomo-cosmo e uomo-terra, sotto la spinta delle scoperte fisiche e cosmologiche. Positivismo, nichilismo, tecnicismo, antropocentrismo, scientismo hanno in vario modo cancellato la creazione e la presenza di Dio in essa. Ciò comporta un impoverimento della stessa nozione di Dio. La crisi ecologica ripropone la necessità di indagare i nessi tra l’uomo, la sfera della vita e Dio creatore. L’enciclica Laudato si’ apre nuovi spazi e richiama filosofi e teologi a riprendere la riflessione sulla creazione e sul rapporto tra Dio e il mondo. L’apporto maggiore di Tommaso d’Aquino alla questione cosmologica e creazionistica è l’idea metafisica e non fisica di creazione, mentre nel contesto culturale contemporaneo la cosmologia (filosofica e scientifica) non riescono a evadere dall’ambito della fisica: si cerca una spiegazione fisica a un problema che a tale livello non ne ha. Dottrine sull’inizio e ontologie della libertà, che pur cercano di evadere dall’empirico, non sembrano a misura di questo tema vitale. Intanto influisce negativamente la filosofia ricavata dal darwinismo, che rimane il punto di riferimento di tanti scienziati e di non pochi filosofi. Secondo J. Rachels «il darwinismo conduce inevitabilmente all’abbandono della dottrina della dignità umana e alla sua sostituzione con un genere differente di etica», in cui gli esseri umani e gli altri animali non appartengano a categorie morali differenti. Secondo Rachels la teoria darwiniana presa sul serio rende irragionevole la tesi dell’uomo fatto a immagine di Dio, e conduce al rifiuto dell’assunto che l’essere umano sia l’unico ragionevole. Dunque non vi sono veri motivi per sostenere la speciale dignità dell’uomo e perciò l’umanesimo. Nell’intento di Rachels di mettere da parte la dottrina della dignità dell’uomo, si legge anche la volontà di escludere ogni riferimento alla creazione: il titolo del volume Creati dagli animali (1996), non dunque da Dio, è esplicito e manifesta una vis anticreazionistica, che sarebbe avvalorata dalla “filosofia prima” dell’evoluzionismo. Negli ultimi decenni sono stati numerosi gli studi volti a sostenere una “creazione senza Dio”. In varie forme di specismo e in genere nell’antispecismo è arduo leggere il riconoscimento dello statuto creaturale del cosmo, e l’implicazione che gli enti creati portino in sé qualche modalità di essere a immagine e somiglianza del Creatore. La critica rivolta alla dignità dell’uomo conduce alla dissoluzione del concetto di persona: esso rimane come semplice termine del linguaggio che però, svuotato di ogni significato reale, è nominalistico. Ora, se Dio e il regno degli spiriti è negato, l’uomo non potrà più “stare in mezzo”, ma verrà respinto solo nel mondo dei corpi, corpo anch’esso. In base alla teoria dell’evoluzione e al suo senso materialistico immanente, l’uomo non è più confine tra due regni, ma ricompreso completamente in quello della corporeità e della mortalità. In tal modo la necessaria ecologia dell’uomo, in cui questi deve rispettare la sua propria natura, verrà confinata al momento corporeo dell’umano dove non esiste differenza tra essere umano e animale, e la tecnica cercherà di spadroneggiare.

Libertà contro ragione, ma l’uomo è fuori gioco 

di Pierangelo Sequeri in “Avvenire” del 22 febbraio 2015 

Libertà - Pio Fedi Basilica Santa Croce, FI

Libertà – Pio Fedi
Basilica Santa Croce, FI

Nel carrozzone culturale dell’Occidente si pretende che riusciamo a parlare contemporaneamente, e senza batter ciglio, due linguaggi contrari. Uno dice che, se vogliamo essere veramente umani, dobbiamo cercare di essere totalmente liberi; l’altro che, se vogliamo essere razionali, dobbiamo accettare di essere totalmente condizionati. Il primo linguaggio istruisce la politica (corretta e democratica, s’intende) e parla secondo la grammatica della libertà come valore assoluto: tutto deve essere scelta, decisione, autocoscienza, autonomia, creatività. Nel suo mondo ideale di riferimento, l’uomo è un individuo senza vincoli condizionanti e senza moralità precostituita, dove la regola d’oro per costruire regole è: la mia libertà finisce solo là dove incomincia la libertà dell’altro (avete mai pensato quale straordinario incentivo è nascosto qui, per infinite guerre di conquista di tutti i nostri piccoli «ego», in cerca di spazio vitale a spese dell’altro?). La seconda grammatica parla il linguaggio della scienza (dura e pura, si capisce). In questa lingua si lascia ormai intendere che le pretese di libertà e di auto-dominio sono destinate a cadere, una ad una, sotto i colpi di un sapere rigoroso che svela le condizioni pre-umane o post-umane – biochimiche, neurogenetiche, ecologiche, cibernetiche – dei nostri comportamenti, pensieri, intenzioni. La cognizione di questi determinismi (complessi e flessibili, certo, in ogni caso organici e materiali) in realtà non svelerebbe semplicemente le cause (è già una grossa pretesa!), ma rivelerebbe anche il senso di tutto il mondo umano che, fino a ieri, abbiamo riconosciuto come mondo dello spirito, della coscienza, del pensiero. Ossia il mondo della libertà creatrice e della legalità del senso. Non pensate subito e solo a religione e morale. Vale anche per l’arte, il diritto, i legami sociali, l’educazione dell’uomo, l’affinamento dello spirito, la grandezza d’animo. Mi pare abbastanza evidente che questa pretesa di un pensiero unico che ci impone di tenere gli opposti diffonde un disagio innominabile e, al tempo stesso, è fonte (inconsapevole) di aggressività e frustrazione. Quella strana politica della libertà ci appare sempre più illusoria. Cerchiamo di volerne di più, perché ci sentiamo sempre più ingabbiati. E al tempo stesso ci lamentiamo perché pensiamo che ce ne sia anche troppa, per chi ormai fa quello che vuole. Siamo tentati di rifugiarci nelle certezze della scienza e nelle risorse della tecnica. Sappiamo bene che le loro soluzioni sono di livello molto più basso, rispetto alle attese che nutriamo nei confronti della politica e della società. Però almeno – si dice – abbiamo qualcosa di sicuro (purtroppo non così sicuro). Il messaggio subliminale che ci arriva da quelle parti, oltretutto, contiene un veleno nella coda. Forse possiamo darti più gradi di benessere, ci dicono, però devi rinunciare totalmente ai valori che hai coltivato sin qui: altruismo, affetti, senso della vita e della morte, dignità del sacrificio e onore della giustizia. E molte altre qualità ancora (per non parlare della fede e della morale). Si tratta solo di calcolare vantaggi e svantaggi del destino genetico e ambientale che ti è assegnato, e giocarteli con la migliore astuzia possibile. In realtà, né la politica né la scienza sono nate in questo modo. Né potrebbero vivere in questo modo. Il fatto è che a parlare sono le parti di una filosofia rozza e prepotente, inventata dall’economia, che si è appoggiata come un parassita alla politica e alla scienza. Ora, poiché la politica e la scienza hanno perso dimestichezza con la filosofia (per non parlare di teologia, musica, poesia e in generale dei racconti della vita reale degli umani), esse sono diventate poco scaltre nel riconoscere la cattiva filosofia che le abita. E la teologia? Certo, di parassiti ne ha contratti. Eppure anche oggi l’esistenza di un pensiero, abbastanza sofisticato e scaltro da non cadere nella trappola dei due linguaggi parassiti, è corposa. Parti cospicue e intelligenti del pensiero laico mettono a fuoco con grande profondità l’improponibilità di un umanesimo che voglia costruirsi annullando l’ascolto dell’esperienza religiosa e separandosi dalla ricerca di un’etica comune. È necessario che la teologia resista alla tentazione di arroccarsi sul glorioso passato di una visione del mondo omogenea con la religione; ma è anche necessario che si disincanti dall’interlocutore fasullo che i tromboni mediatici indicano come ambasciatore della ragione politica e scientifica che pretende di rappresentare l’umano che avanza.

Edith Stein

di Miriana Parentini Dureghello

La passione per l’intero di Edith Stein

Edith Stein nacque a Breslavia il 12 ottobre 1891, nel giorno dello Yom Kippur, la festa del Perdono, era tedesca di lingua e di cultura ma di stirpe ebraica, allora molto sospettata. Il padre, commerciante di legname, morì quando Edith aveva solo due anni, fu la madre, anche lei figlia di commercianti, a portare avanti brillantemente gli affari e a mantenere i suoi sette figli. Il fascino della madre su Edith veniva dalle qualità straordinarie di quella donna, signora della casa e intraprendente negli affari, tuttavia questa non riuscì a trasmettere i valori dell’ebraismo ai propri figli. La sua era una famiglia di antica tradizione ebraica, seguivano i ritmi religiosi, ma in modo piuttosto superficiale, soltanto la madre, Edith e un’altra sorella compivano tutto con dignità e convinzione, era invece evidente che gli altri non prendevano sul serio le cose sacre.

Edith da sempre amò il sapere, era una ragazza sveglia e già molto colta quando, tra i quindici e sedici anni, le venne un senso di profondo rifiuto, entrò in una crisi che la trasse fuori dall’immaturità umana di quell’età spingendola verso un precoce ateismo abbastanza convinto. Trovava troppo esteriore e formalistico ciò che si usava fare in sinagoga, trovava che, almeno tra gli ebrei della Bassa Slesia, si mancasse di una vera spiritualità: erano aridi e tendevano a un praticismo che chiamavano concretezza, anzi scientificità. Per loro contava la ragione, non la fede. E ormai anche Edith stava prendendo quell’orientamento.
All’università di Breslavia, nel corso dello psicologo Stern, Edith è incuriosita dalla psicologia razionale della Scuola di Wurzburg, in particolare da Edmund Husserl. Dopo aver studiato i due tomi di “Ricerche logiche” si convinse di voler seguire le sue lezioni a Gottinga, poiché lì “…si studiano le anime, non i libri. Si entra nel profondo della persona per vederne le reazioni e le contraddizioni” . La sua indipendenza e la sua coerenza nella ricerca intellettuale e morale sono le due molle che le danno la forza di allontanarsi da casa e dall’ambiente di Breslavia e di iniziare il nuovo periodo di studi a Gottinga. Entra così nell’ambiente filosoficamente fecondissimo di Husserl, nato come scienziato e matematico, passato poi alla filosofia, di matrice ebraica, convertito alla visione cristiana della vita soprannaturale, fondatore della Scuola Fenomenologica.
Proprio allora cominciò ad occuparsi del tema dell’empatia (Einfuhlung), si professava agnostica e realista, ma era colpita dai valori cristiani che iniziava ad intuire, qualcosa andava cambiando dentro di lei, iniziava a traballare il suo razionalismo, o meglio la tendenza di ridurre tutto alla ragione e il credere che con essa tutto si spieghi. La passione per la verità, che è il tratto tipico di Edith Stein, prende corpo in un ambiente senza pregiudizi, attento all’esperienza umana in tutte le sue forme, rispettoso verso tutti i vissuti, anche quelli religiosi. La religione viene rivalutata nel suo essere un vissuto serio e profondo.
Husserl stesso le chiese di fare con lui la tesi di laurea, le chiese di verificare quanto fosse vero che “un mondo esterno oggettivo può essere ben captato e sperimentato solo in un rapporto tra vari soggetti” che si scambino le loro reazioni e arrivando così ad un livello più alto di quello che ciascuna di esse può raggiungere da sola. Avrebbe dovuto approfondire in cosa consisteva questa esperienza interdipendente confrontando il pensiero di Husserl con quello di Teodoro Lipps. Conseguì il titolo di “dottoressa in filosofia” nel gennaio del 1915, con la massima lode, e in aprile si offrì come volontaria della Croce Rossa, fu chiamata in Austria, sui Carpazi, dove la guerra infieriva con molti morti.
Al suo rientro riallacciò i rapporti con Husserl, conobbe Heidegger e collaborò alle sue opere. Rivedendo la sua tesi ebbe la sensazione che fosse tutta da rifare, avrebbe voluto capire veramente cosa fosse davvero l’empatia. Approfondì ulteriormente questa tematica scrivendo la tesi di dottorato “Il problema dell’empatia” nel 1917 e Husserl, comprendendo l’acutezza della dissertazione, le riconobbe la “summa cum laude” e la scelse come sua assistente.
Nell’estate di quello stesso anno ricevette da una cara amica una tremenda notizia: suo marito, un giovane professore che molto aveva fatto per Edith, era morto in guerra. Edith si precipitò a portare il suo conforto alla giovane donna, ma non trovò la disperazione che si aspettava. L’amica era di una forza e serenità inspiegabili umanamente. L’anno precedente, assieme al marito, si era convertita dall’ebraismo al cristianesimo e l’incontro con Cristo, con il mistero della sua passione, morte e risurrezione le dette nuovi parametri di vita e una ragione più alta per accettare quei momenti drammatici. Questa fede interrogò Edith e il suo sistema di falsa neutralità e indifferenza religiosa, più tardi disse che in quel momento la luce di Cristo spuntava nel suo cuore.
Il primo frutto del suo lavoro con Husserl fu la preparazione per la stampa di “La coscienza del tempo”, non si trattava solo di far da segretaria al filosofo, andava infatti già maturando sempre più idee sue che confrontava con il suo maestro e con altri illustri filosofi del tempo come Heidegger, che studiò con lei a Gottinga e con cui discusse l’impostazione di un proprio libro, che stava imbastendo ma che finì molto tempo dopo: “Essere finito ed Essere eterno”. A muoverla non era il gusto delle pure nozioni, ma l’amore della verità. Un more forte che non si fondava solo sull’intelligenza, scrisse in seguito:” la sete di sapere era, per il momento, la mia unca forma di orazione”; e: “chi cerca la verità, consapevole o no, cerca Dio”, espressione rivolta a proposito di Husserl che molti aveva suggestionato portandoli alla conversione. Intanto Edith non era tra quelli, anzi i rapporti con il suo maestro si facevano sempre più faticosi, restava una sua discepola devota, ma ugualmente critica e già entro il primo semestre di servizio aveva in mente di far valere le sue posizioni filosofiche che in parte differivano da quelle di Husserl. Fu così che nel febbraio del 1918 gli comunicò di volersi ritirare dalle sue mansioni.
A Bergzabern, nel Palatinato, in una delle regioni più cattoliche della Germania, durante una sua visita a degli amici nel periodo delle vacanze, ebbe una sera l’occasione di rimanere sola nella biblioteca della famiglia che la ospitava, senza scegliere prese il primo libro che le capitò sotto mano: Vita di santa Teresa d’Avila, scritta da lei stessa. Quando chiuse il libro confessò a se stessa: Questa è la verità!”, era l’estate del 1921. Quel mattino, dopo una notte insonne, si recò in città e comprò due libri che certo non prese a caso: un catechismo cattolico e un messalino. Fu battezzata nel Capodanno del 1922 da mons. Schwind, vicario generale della diocesi, che rimase profondamente colpito dalla profonda cultura teologica della giovane.
Anche dopo la sua conversione continuò in quello che nella sua stessa scuola di psicologia e filosofia si seguiva, creare cioè un rapporto veramente “empatico” delle persone con le verità cristiane. Don Conrad Karl Schwind, nipote di mons. Schwind, confermava: “Quanto grande fosse il suo desiderio di arrivare alla Verità è dimostrato dalla sua conversione, dal suo continuo studiare e dalla sua indefessa ricerca di Dio” .
Tra i suoi amici anche i più superficiali notarono il cambiamento di Edith, ad essi spiegò le nuove disposizioni con cui affrontava la vita interna e scientifica, certo quel che aveva sempre sostenuto Husserl e ribadito Max Scheler, psicologo con cui manteneva un profondo rapporto di stima, e cioè che bisognava guardare la verità senza pregiudizi e che è del tutto possibile coltivare la scienza ed essere credenti cattolici , lo fece suo.
Riesaminando tutta la fenomenologia disponeva ora di una capacità critica molto accresciuta rispetto agli anni in cui si confrontava con Husserl, nuove idee la sostenevano penetrando il pensiero di san Tommaso, l’Aquinate che diceva cose antiche e ancora nuove.
In particolare fece sua la nozione di partecipazione, atteggiamento tipico della filosofia cristiana che traduce il dato creazionale come tipicità dell’essere degli enti. Da qui deriva la nozione di “trascendentale” adottata da Edith e la sottolineatura della “forma” nella sua antropologia. Tradusse con fedeltà le opere di San Tommaso cominciando dalle Questiones disputatea de veritate, che completò nel 1928, e pubblicando due volumi in un’edizione arrivata qualche anno dopo. San Tommaso interessava a Edith per se stesso e per il confronto che lei riuscì a stabilire con la fenomenologia di Husserl e in particolare con l’empatia, tema di speciale attenzione per lei che scrisse il libro ”L’empatia nella filosofia” nel 1917. Anche nell’introduzione del suo “Essere finito ed Essere eterno” emerge l’intima necessità di confrontare i modi diversi di filosofare espressi da Husserl e san Tommaso, intuizioni preziose per la nostra riflessione che cercherò di evidenziare nel prossimo capitolo.
Al suo amico Heidegger, Edith criticava una concezione del mondo senza Dio, nell’opera “Essere ed esistere” del 1927, e si augurava che trovasse un fondamento assoluto, Dio appunto. Rimproverava alla filosofia moderna di ritornare al naturalismo dell’antichità greca passando sotto silenzio la filosofia medioevale, ma si domandava anche se fosse possibile per la tradizione antica confluita nei cristiani medioevali far propria la problematica della impostazione della fenomenologia senza assumere insieme il suo idealismo trascendente. Salvando l’io sentiva di salvare la sua vocazione che era quella di rimanere dentro la modernità, non rimase prigioniera del passato, ma riuscì ad abitare e oltrepassare la modernità salvando ciò che di buono portava. Riconobbe ad esempio all’illuminismo razionalistico il valore della libertà e l’importanza della ragione, Edith si sentiva libera ed era consapevole di essere un soggetto autonomo; del soggettivismo contemporaneo salvò l’io inteso come soggetto pensante, considerò una sfida la ricerca di quanto vi sia di inesplorato nella profondità dell’io.
Il 14 ottobre del 1938 Edith entrò al Carmelo di Colonia, il nome che assunse fu Teresa Benedetta della Croce. La politica del Terzo Reich la costrinse a lasciare il Carmelo di Colonia e si trasferì ad Echt, in Olanda, il 31 dicembre 1938. Alcuni mesi dopo la raggiunse anche la sorella Rosa in qualità di aiutante esterna. Edith e Rosa vennero arrestate il pomeriggio del 2 agosto 1942 e portate ad Amensfoort, campo di passaggio per Westerbork, campo dove Edith visse con intensità e la vide partire per Auschwitz dove morì insieme alla sorella il 9 agosto.
Edith Stein è stata beatificata a Colonia nel 1997 e canonizzata a Roma nel 1998.

L’empatia nell’antropologia psicologica di Edith Stein

Penetrò in Edith la grande scoperta di Husserl: il mondo dei vissuti.
Husserl non nega, ma tiene in sospeso il mondo empirico così come esso è concentrandosi piuttosto sulle modalità con le quali le cose sono date alla coscienza di ogni uomo, i vissuti appunto, esperiti da un io trascendentale.
Il mondo dei vissuti è inteso come modalità universale con la quale si presentano i vissuti umani quando sono analizzati dall’io; non si tratta di biografie, ma dei modi universali con cui ogni uomo percepisce sia eventi cognitivi che affettivi ed emotivi.
Il luogo in cui si attuano i vissuti umani non è unicamente la coscienza del proprio io, infatti un posto di prim’ordine è dato anche dalla relazione, dall’intersoggettività, intesa come “senso dell’altro”, laddove emergono amore, odio, empatia, religione, linguaggio…: i vissuti di alterità.
La fenomenologia accolta da Edith Stein si basa sull’epochè, l’osservazione rigorosa, un esercizio di pensiero finalizzato a rimuovere le ovvietà e accogliere le essenze delle cose, cioè i dati che non possono essere rimossi dal nostro pensare e che costituiscono l’universale della mente e degli affetti. L’intelletto si rivolge a ciò che interroga considerandolo “altro”, senza interpretarlo in maniera previa, così facendo vengono svelati i pregiudizi che lo avrebbero condizionato e diventa possibile lasciar emergere la profondità dell’io. È necessaria una profonda onestà pensando alla verità non come un dato ottenuto una volta per tutte, ma come un cammino da percorrere.
L’antropologia di Edith Stein si è sviluppata tenendo sempre conto dell’alterità e dell’interiorità delle relazioni mantenendo il contesto moderno della ricerca dell’orizzonte di senso. Per la Stein dietro l’io di ogni uomo c’è Dio, l’io si rivela essere un mistero di relazione poiché, pur essendo autonomo e centro stesso di autonomia e di libertà, è collegato con l’io-sono di Dio.
Solo l’uomo nella propria coscienza riconosce una dimensione interiore, dove si rimane uniti, pur nella dispersione del vivere, dove si è in grado di pensare e di stare in intimità con se stessi. Ma l’io non può essere pago di se stesso, tocca in sé un’esperienza di vuoto che chiede di essere riempito:”Nell’io c’è qualcosa di più grande dell’io”, e può essere riempito soltanto dall’io di Dio.
Intende la realtà come essere, ma in relazione al senso dell’essere e alla coscienza. Pensa all’essere umano come Dasein, ma contrariamente alla concezione di Heidegger, l’io per la Stein è persona, appartiene contemporaneamente all’anima e al corpo, è unificato; inoltre rimane se stesso pur proiettandosi nel passato attraverso la memoria e nel futuro tramite la progettualità, la sua è un’antropologia attenta all’intero della vita umana.
Nella sua concezione del senso dell’essere emerge il suo accostamento a San Tommaso, ma nulla della sua impostazione fenomenologica è perso. Nel suo testo “La fenomenologia di Husserl e la filosofia di San Tommaso d’Aquino” presenta la capacità del metodo fenomenologico di rinnovare la Scolastica.
L’essere di Tommaso diviene in Edith un esser-ci nel senso che l’essere finito è in dialogo con l’Essere eterno e la persona umana è il luogo particolare di tale dialogo, proprio nell’opera “Essere finito ed Essere eterno” la filosofa presenta il percorso che conduce il realismo tomista, senza mai semplificarlo, al recupero del nucleo critico della contemporaneità: il senso del vivere.
L’originalità di Edith Stein, che emerge in tutte le sue opere, è la relazione a partire dal senso dell’essere in cui i vissuti della coscienza sono sempre raccordati ai vissuti degli altri.
Il termine “empatia”, in tedesco “Einfuhlung”, non dev’essere banalizzato, nel circolo di Gottinga significava un oggetto in relazione alla propria interiorità, trasmettendogli qualcosa di sé e riconoscendo qualcosa di sé stessi in esso. Nell’analisi degli stati di coscienza l’oggetto non viene solo percepito, ma sentito all’interno, rivissuto, animato, vissuto in relazione al proprio io. Per Edith Stein l’espressione traduceva una percezione comunionale dell’altro in quanto soggetto spirituale, una percezione dell’altro in quanto fonte di sé, non un’aggiunta, ma parte, fonte di sé.
La Stein è partita dall’analisi della tipologia della presenza: la presenza degli altri non è come la presenza di un tavolo o di un fiume, l’altro non si limita a comparire nel mio orizzonte percettivo, ma si esprime nel mio orizzonte di vita.
“Quando guardo una persona negli occhi, allora scopro per dir così il suo essere un io, dalla direzione dello sguardo si esprime l’orientamento spirituale” . È un’irruzione in me, un ignoto, nell’incontro vengono messi in discussione i confini di ciò che chiamiamo “io”, l’empatia è il nucleo della relazione, è la base della relazione con l’altro. Empatia è contemporaneamente “io” e “altro”, interiorità ed alterità, è il fondamento di tutti gli atti con cui viene colta la vita psichica altrui.
Empatia è “amore per”, è il viversi in relazione a qualcosa di altro da me. Spesso compiere determinati atti, avere determinati impulsi e desideri non vuol dire viverli; per viverli è necessario un intimo assenso, o dissenso, alla profondità del nostro essere. Questo invece è spesso mascherato da pretesti, giustificazioni e si svela o si tradisce attraverso turbamenti, piaceri o dispiaceri corporei. Il luogo dei significati è l’anima, il vissuto dell’anima è il bisogno di senso, di riempimento e di forza. Tutto ciò non viene da se stessi.
L’empatia è il segno visibile, la manifestazione della ricettività senza la quale l’esperienza rimane chiusa nell’io, ma sulla superficie e non agisce mai in profondità. E’ il sentimento necessario a far contatto con la vita che si porta dentro di sé ed è sempre direzionata al massimo del significato, cioè allo spirito. Solo la persona umana “sboccia verso l’interno”, la spiritualità non è astratta ed eterea, ma è toccare il proprio sé e dimorarvi, il contatto con se stessi è il vissuto dell’anima.
Comprendendo il concetto di empatia è possibile cogliere come esso unifichi le diverse dimensioni dell’essere umano quali corporeità, psiche e spiritualità. La relazione con l’altro rivela il complesso gioco di dipendenza e autonomia tra vita psico-fisica e spirituale. L’empatia è legata alla corporeità ed alla spiritualità al tempo stesso, rivela il grande valore del corpo e soprattutto la sua natura di segno in quanto esso rimanda ad altro ed è relazione di interiorità. Il vissuto del corpo è un vissuto di ulteriorità, cioè un vissuto che immerge nella trascendenza relazionale dell’”oltre”, non l’oltre nel senso di qualcosa di ultreterreno, ma nel senso della profondità. Vivendo il proprio corpo si è rimandati nell’interiorità dell’io.
L’empatia rivela la grandezza del sentire: “sentir male è sentir poco. Oggi la relazione è un canale ostruito”, il mondo è irrigidito, come ibernato ed è necessario sviluppare la nostra sensibilità per sentire e capire unitariamente. Il sentire è importantissimo perché il mondo dei sentimenti è la zona più profonda dell’uomo, il non sentire coincide col non sentire abbastanza realtà.
Di quanta più realtà una sensibilità diventa capace, tanto più esatto sarà, da un lato, il sentimento delle differenze e delle priorità di valore, e dall’altro la ricchezza della sua personalità e il suo grado di individuazione. Qui essere e bene coincidono senza violenza per il senso comune perché si decresce in personalità e unicità nella misura in cui si riduce il sentimento di realtà, e nella misura in cui questo aumenta, si cresce. Non c’è limite al crescere possibile, mentre c’è un limite inferiore, lo zero del sentire personale, dove cessa ogni identità individuale: il luogo dell’uniformità, dove la vita pulsionale, appetitiva si fa cieca forza, e del pensiero non resta che luogo comune e ideologia.
Si può dire dell’empatia che essa sia una relazione di trascendenza poiché l’altro non è colui che descrivo, ma colui che incontro. Non è riducibile a me, non esiste a partire da me. L’altro è ulteriore a me, è più di quanto io capisca, posso coglierlo sul versante esteriore, della comunicazione, ed uno interiore che mi si fa presente nella totalità della persona. È un intero di cui scorgo solo una parte, più mi inoltro nel suo “intero”. Empatia è non giudicare l’intero, questo non significa non indignarsi, non detestare azioni disoneste eccetera, ma non giudicare dell’essere di una persona.
L’attuazione dell’empatia corrisponde ad un “rendersi conto” che è relazionale, che trasforma anche me stesso per l’effetto dell’entrare nel mio orizzonte del sentire altrui. Sono allora invitato ad allargare la mia esperienza per accogliere la trascendenza dell’altro.
“Mentre cerco di chiarire a me stesso lo stato d’animo in cui l’altro si trova, questo non è più oggetto in senso proprio, ma mi ha coinvolto in sé. Ora non sono più rivolto verso di lui, ma sono presso il suo soggetto, sono al posto di questo”.
E ancora:” Un amico – scrive la filosofa – viene da me e mi racconta che ha perduto suo fratello e io mi rendo conto del suo dolore. Che cos’è questo rendersi conto? Non mi interessa qui capire su che cosa si fonda il suo dolore o da che cosa lo deduco(…). Non per quali vie arrivo a questo rendermi conto, ma che cosa è in se stesso, questo è ciò che vorrei sapere” .
Possiamo ora dire che l’empatia significa rendersi conto dell’essere in relazione e non un avvicinarsi al dolore fuori di sè, mediante un atto cognitivo o una rievocazione di un dolore vissuto precedentemente, questo si ridurrebbe ad un rimanere presso di sé, mentre l’empatia è un movimento verso l’altro, non un fare, ma un essere in movimento di ospitalità e di ascolto, è un ospitare la relazione, un uscire da sé per rientrarvi con l’altro .
Ci siamo rivolti al terapeuta credente offrendogli soltanto una proposta, un possibile sentiero da percorrere, ma già qui emerge come la lezione della Stein offra un valido punto di riferimento per la comprensione dell’essere umano, non in astratto, ma in un’intuizione data dall’esperienza. La filosofa ci dà la possibilità di mantenere integra la persona, non solo aperta al trascendente, ma costitutivamente tesa all’altro e all’Altro; traccia un percorso in cui viene valorizzata la filosofia cristiana, specie quella Scolastica, ma senza sottrarsi alla sfida della modernità (e della postmodernità), offrendo una base filosofica-antropologica su cui innestare una nuova psicoterapia, rispettosa della struttura ultima dell’essere umano e del valore della persona intesa come unità di corpo vivente e anima .