Non possiamo collaborare al suicidio assistito. I medici tutelano la vita

eutanasia-medici-shutter«Deve essere un pubblico ufficiale a occuparsi della procedura. La morte non è un presidio terapeutico. Indispensabile l’obiezione di coscienza». Intervista a Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri

Leone Grotti, 26 settembre 2019 su Tempi

«I medici possono stare accanto al malato fino alla fine, ma non devono collaborare in alcun modo al suicidio assistito. La morte non è un presidio terapeutico, sarebbe innaturale per noi. La professione medica tutela la vita». Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, commenta così a tempi.it la sentenza della Corte costituzionale che ieri, in modo confuso e incoerente, ha depenalizzato il suicidio assistito in Italia a certe condizioni.

Quali sono i paletti posti dalla Consulta?
Il reato di aiuto al suicidio è stato depenalizzato in casi molto particolari: il malato deve essere terminale, sopravvivere grazie all’aiuto di macchinari, essere in preda a grandi sofferenze ed essere cosciente. Ora tocca al governo e al Parlamento fare una legge.

Che cosa chiedono i medici alla politica?
Chiediamo rispetto nei confronti della professione. Lo scopo del medico è combattere la malattia, alleviare la sofferenza e allontanare la morte il più possibile. I cittadini che scelgono il suicidio assistito non saranno mai abbandonati dai medici, ma chiediamo che non siano i dottori a dare avvio alla procedura che porta alla morte.

Chi deve farlo allora?
Un pubblico ufficiale. I medici non possono collaborare al suicidio assistito e questo è possibile dal momento che è il malato che dovrà assumere il farmaco letale sciolto in un bicchiere.

Perché chiedete di non collaborare all’eutanasia?
Sarebbe innaturale, la morte non è un presidio terapeutico. Non ci è mai successo né capitato di farlo. È dal 400 a.C., da quando Ippocrate ha scritto quel bel giuramento, che la professione medica è protetta da stravolgimenti di ogni genere. La nostra professione tutela la vita e basta.

La Corte Costituzionale non ha ricordato l’obiezione di coscienza.
Penso che lo farà nella sentenza, che non è ancora uscita. L’obiezione di coscienza va per forza inserita nella legge, perché bisogna tutelare i colleghi che ritengono l’eutanasia incompatibile con i propri convincimenti racchiusi nella coscienza. Ma se saranno i pubblici ufficiali a fare tutto, non ci sarà neanche bisogno dell’obiezione.

>Fino a quando non ci sarà una legge, saranno i giudici a decidere caso per caso. Siete preoccupati?
Sì. Il governo deve disciplinare il suicidio assistito quanto prima e stabilire che i medici devono occuparsi solo dei trattamenti sanitari.

Ha ricordato che la Consulta ha posto paletti precisi. Ma negli altri paesi europei dove è stata legalizzata l’eutanasia, dal Belgio all’Olanda, i paletti sono caduti in pochi anni e le maglie della legge si sono allargate a dismisura.
Penso che si aprirà un dibattito nella società. Da una parte c’è il rispetto della vita umana, dall’altro l’autodeterminazione dell’individuo. Io temo che prevarrà sempre di più quest’ultimo concetto. La tendenza che si vede nelle società è questa, anche se in Italia potrà non piacere a grandi strati della popolazione.

@LeoneGrotti
Foto BlurryMe/Shutterstock

Molte dure domande e una risposta da medici

da Avvenire

Caro direttore, il comunicato stampa diffuso ieri dalla Corte Costituzionale è un raro esempio di confusione sui termini della delicatissima questione che deve essere affrontata. Senza ribadire gli aspetti etici e antropologici di fondamentale importanza che questa ordinanza comporta – la vita come diritto e bene subordinato alla autodeterminazione – e sui quali tanto e bene ha affermato il presidente della Cei due settimane fa, vorrei puntare il focus sugli aspetti medici a essa strettamente connessi.

Affronterei per primo il contesto strettamente clinico. Nel testo si pongono alcune condizioni ricorrendo le quali si configura la «non punibilità» dell’aiuto al suicidio. Si parla di «patologia irreversibile», «tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale», «sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili », «capacità di prendere decisioni libere e consapevoli »… Siamo in attesa del testo della sentenza, che arriverà solo tra alcune settimane, e tuttavia c’è da temere che chi scrive abbia un’idea molto vaga del tema che sta trattando.

Andiamo per ordine. «Patologia irreversibile» che provoca «sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili ». Il pensiero corre subito alle gravi patologie neurodegenerative (Sla, Sm, Parkinson, la variegata famiglia delle neuropatie con paralisi progressive, demenze varie ecc…), ma purtroppo l’elenco è molto più ampio e complesso. Facciamo due esempi facili da comprendere anche dai non addetti ai lavori. La «cefalea a grappolo» che il Manuale di Medicina Interna ‘Harrinton’ definisce «uno dei mali peggiori che si possa sperimentare », con attacchi violenti di mal di testa, che si ripetono anche decine di volte al giorno, e invalidano totalmente la vita lavorativa e relazionale di chi ne soffre, costretto a chiudersi in una stanza al buio e silenzio totali. Farmaci analgesici, antiinfiammatori e perfino oppiacei sono inefficaci. Non esiste una vera terapia e può durare un numero indefinito di anni. Potrebbe rientrare nelle caratteristiche che la Consulta delinea. Altra fattispecie: depressione endogena, cioè senza apparente causa scatenante esterna. È malattia irreversibile sulle cui sofferenze connesse è inutile spendere parole. Dobbiamo forse concludere che anch’essa può rientrare nelle patologie delineate dalla Corte? È possibile obbiettare che manca un requisito: «Tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale». E qui c’è il rischio della più ampia discrezionalità interpretativa. Voi pensate che un parkinsoniano possa vivere senza farmaci, o un epilettico senza anticomiziali, o un diabetico senza insulina, o un depresso endogeno senza neurolettici? Sono veri trattamenti di sostegno vitale! Non si può vivere senza di essi, ma possiamo sospenderli: dunque «suicidio assistito » garantito e legittimo?

Un altro requisito indicato dalla Corte: «Capacità di prendere decisioni consapevoli ». Pensiamo che chiunque di noi si trovasse nelle condizioni cliniche delle patologie sopra menzionate e tante, tante altre consimili, magari con l’aggiunta dell’evidente disagio e ‘disturbo’ manifestato da familiari o conviventi, e con la pressione sociale che invoca il ‘meglio togliersi di mezzo, perché oltretutto costi e sottrai risorse alla società’ sarebbe nella condizione oggettiva di formulare decisioni veramente libere ed equilibrate? In palese contraddizione, in aggiunta, con l’affermazione finale del comunicato: per «evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili». Chi è più vulnerabile di un grave disabile, come sopra descritto?

Da ultimo: responsabile «della verifica delle condizioni richieste e delle modalità di esecuzione» è il medico, in qualità di competente, addetto ai lavori. Questo passaggio è veramente inaccettabile, come ha giustamente fatto notare la presidenza della FnomCeo. Si lasci che il medico faccia il ‘mestiere’ per il quale ha studiato, lavorato e impegnato ore e ore di studio: difendere la vita, prevenire e curare le malattie, lenire il dolore. Personalmente mi sento gratificato e – permettetemi – felice quando dopo ore di sala operatoria ho asportato un tumore cerebrale; e mi sento offeso se si pretende che in pochi minuti infili un ago nel braccio del mio paziente per iniettare il «farmaco letale». Ore per salvare una vita, due minuti per uccidere: questa non è medicina. Dunque, sì, se proprio si vuole, si compili una lista di ‘funzionari statali’ addetti a questa abbietta incombenza e si lasci al medico il compito che gli compete da millenni.

prof. Massimo Gandolfini
Neurochirurgo e psichiatra

L’insopportabile leggerezza della Consulta. Un comunicato, tre refusi

corte-costituzionale-giudiciIl comunicato della Corte costituzionale che depenalizza l’eutanasia è pieno di strafalcioni. Come se non fosse una questione di vita o di morte.

 
 

di  

 
 

Il magistrato e accademico Vladimiro Zagrebelsky firma oggi un editoriale sulla Stampa per convincerci che la sentenza della Corte costituzionale che depenalizza l’eutanasia in Italia «non istiga al suicidio». Al di là dell’evidente contraddittorietà di questa affermazione, il giurista sottolinea in tutte le salse quanto i giudici supremi sono stati «cauti» e quanto fossero «consapevoli della gravità e delicatezza del tema».

TRE REFUSI NEL COMUNICATO
Se è vero che nessun tema al pari del suicidio assistito è una questione di vita o di morte, è altrettanto evidente la superficialità e leggerezza con cui la Consulta ha affrontato il tema. Erano così «consapevoli» i guardiani della nostra Costituzione che hanno sbagliato e rettificato per ben tre volte il comunicato (in attesa della sentenza vera e propria) nel quale davano disposizioni su chi e quando può accedere al suicidio di Stato.

Il primo errore, il più grave, riguarda proprio la definizione dei requisiti per accedere all’eutanasia. Nel comunicato originale si leggeva che «non è punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale (…) chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio (…) di un paziente (…) affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche».

L’ENORME DIFFERENZA TRA “E” ED “O”
Ieri è arrivata la correzione: «Per un refuso alla riga 8 compare, invece della disgiuntiva “o”, la congiunzione “e”. Quindi, l’espressione corretta (peraltro tratta dall’ordinanza n. 2017 del 2018) è la seguente: “… fonte di sofferenze fisiche o psicologiche”». Una differenza enorme: nel primo caso era richiesta la concomitanza di problemi fisici e psicologici insieme. Nel secondo, solo uno dei due. La disgiuntiva “o” infatti aumenta a dismisura la platea di chi potrà avere accesso all’eutanasia.

In Olanda, ad esempio, dove la legge sull’eutanasia è stata approvata nel 2002, ci sono voluti ben otto anni prima di dare il via libera alla soppressione di malati con problemi esclusivamente psicologi e psichiatrici. Se tra il 2003 e il 2010 ci sono stati al massimo due o tre casi ufficiali all’anno, il numero è poi cresciuto a dismisura: 13 nel 2011, 14 nel 2012, 42 nel 2013, 41 nel 2014, 56 nel 2015, 60 nel 2016, 83 nel 2017 e 67 nel 2018. A questi vanno poi aggiunti i malati affetti da demenza uccisi con l’eutanasia, ben 859 tra il 2010 e il 2018. È questa la differenza che, in Olanda, passa tra una “e” e una “o”.

IL RIMANDO ALL’ORDINANZA SULLA CACCIA
Ma nella correzione c’è un secondo errore: l’ordinanza citata n. 2017 del 2018, infatti, non esiste. È stato fatto dunque un nuovo comunicato dove si citava l’ordinanza n. 217 del 2018. Questa riguarda un contenzioso tra la Regione Abruzzo e l’Enpa (Ente nazionale protezione animali) a riguardo di una legge sull’attività venatoria e la protezione della fauna selvatica. Forse la Corte costituzionale pensava che qualcuno avrebbe preso a schioppettate i malati. Si è trattato invece di un nuovo errore, un’altra leggerezza. A questo punto, è stato redatto un ultimo comunicato dove si cita l’ordinanza giusta: la 207 del 2018.

TANTO CI PENSANO I MEDICI
Non si è mai visto che su un tema così delicato e dalle conseguenze così gravi per la vita dei malati e dell’intera società, dei giudici si permettessero di infilare uno dietro l’altro così tanti strafalcioni. Come se fosse un argomento da poco, come se non fosse una questione di vita o di morte. Alla faccia della «cautela» e della «consapevolezza della gravità e delicatezza del tema». Tanto saranno i medici (nel comunicato non si cita neanche l’obiezione di coscienza) a occuparsi dell’uccisione dei pazienti. Saranno loro che dovranno sporcarsi le mani. I giudici della Corte costituzionale, del resto, se le sono già sporcate abbastanza.

La legge dell’Alabama? Ancora ingiusta, ma è un passo avanti

alabama-vignetta-large-0Davanti alla proposta sull’aborto approvata in Alabama bisogna chiedersi: si tratta di una legge giusta, posta a tutela della vita del nascituro, o ingiusta? La risposta è che questa legge rimane ingiusta, perché non è mai moralmente lecito procurare volutamente la soppressione del nascituro, ma è meno ingiusta rispetto alle norme tuttora vigenti. E si spera possa innescare effetti positivi, come una revisione della tematica abortiva con il concorso della Corte Suprema.

di Tommaso Scandroglio

Il testo di legge in materia di aborto che ha ricevuto la firma del governatore dell’Alabama Kay Ivey, e la cui entrata in vigore è prevista tra sei mesi, riporta il seguente titolo: “Legge dell’Alabama per la tutela della vita umana”. Il titolo corrisponde al contenuto della legge? In altri termini: si tratta di una legge giusta, posta a tutela della vita del nascituro, o ingiusta? La risposta è la seguente: questa legge è intrinsecamente ingiusta, seppur sia una proposta meno ingiusta rispetto alla legge tuttora vigente in Alabama e rispetto ad altre leggi sull’aborto. Per provarlo andiamo ad esaminare per sommi capi l’articolato di legge (https://legiscan.com/AL/text/HB314/id/1980843).

Il cuore della proposta è la sezione 4: “Abortire è consentito se un medico curante con licenza in Alabama stabilisce che è necessario abortire per prevenire gravi rischi per la salute della madre del nascituro”. Inoltre nella sezione 3 si afferma che è legittimo abortire “quando il nascituro ha un’anomalia letale” per la sua stessa sopravvivenza. Infine è legittimo l’aborto se la donna, affetta da una grave patologia mentale, è a rischio suicidio oppure rischia di ricorrere all’aborto clandestino (sezione 3).

Ricordiamo che non è mai moralmente lecito abortire, ossia volere la soppressione di un nascituro innocente. Non è mai permesso nemmeno perseguendo il fine buono di tutelare la salute o la vita della madre. Dunque, dato che questo disegno di legge legittima l’aborto e dato che mai si può legittimare il male, ne consegue che tale disegno di legge è intrinsecamente ingiusto.

Qualche altra considerazione in merito all’articolato di legge. Cosa si intende per “gravi rischi per la salute della madre”? La sezione 3 ne offre una interpretazione autentica: si tratta di un serio pericolo di “danno fisico sostanziale di una importante funzione corporea”. Dunque la prima valutazione che dovrà fare il medico e, se si va a processo, il giudice riguarda la probabilità che si verifichi il danno: il rischio deve essere serio, quindi elevato. La seconda valutazione deve riguardare la rilevanza del danno che come abbiamo visto deve essere sostanziale e deve riguardare una funzione corporea importante. I rischi possono essere generati dalla gravidanza oppure no, quindi da patologie indipendenti dalla gravidanza e, per ipotesi, già in essere al momento in cui la donna scopre di aspettare un bambino.

Ora, in merito alla doppia valutazione di cui sopra – grado di rischio e grado di lesività – la valutazione è soggetta ad ampia discrezionalità ed è facile sfociare nell’arbitrarietà. Ad esempio, qualsiasi stress di un certo rilievo a carico di qualsiasi organo o apparato, generato dalla gravidanza, potrebbe essere motivo legittimo per abortire. Parimenti, un rischio di abortire spontaneamente potrebbe indurre la donna a richiedere legittimamente l’aborto. A maggior ragione se la donna è già affetta da una patologia importante: tumore, malattie cardiovascolari, etc. Dunque, una normativa che i media hanno venduto come estremamente restrittiva potrebbe, al momento della sua attuazione concreta e soprattutto nelle mani di giudici liberali, diventare sensibilmente permissiva.

Come accennato, anche la donna con documentata patologia psichiatrica di natura grave potrebbe essere sottoposta ad aborto se c’è il rischio che si tolga la vita oppure che ricorra all’aborto clandestino. Oltre all’arbitrarietà nella decisione di stabilire la gravità di una patologia psichiatrica, questa indicazione normativa rischia di legittimare l’aborto per tutte le donne disturbate, al di là del fatto che la gravidanza le spinga o meno a cercare la morte. In altre parole, nella prospettiva della legge ogni aborto su donna mentalmente fragile potrebbe essere legittimato, perché, per ipotesi, nessuna è assolutamente esente dal rischio di togliersi la vita o di ricorrere all’aborto clandestino proprio perché mentalmente disturbata.

La sezione 5 poi disciplina quanto segue: “Nessuna donna su cui un aborto viene eseguito o su cui viene tentato di essere eseguito deve essere penalmente o civilmente responsabile”. Due note. La prima: se il medico che compie l’aborto al di fuori dei casi legittimati finisce in carcere, in quanto esecutore materiale, per logica anche il mandante, cioè la donna, dovrebbe essere punita, tenuto conto altresì del principio di equità: perché punire la madre infanticida e non la madre che ricorre all’aborto? Sarà poi il giudice che doverosamente, come per tutti gli altri casi di omicidio, dovrà adeguare la sanzione all’oggettiva responsabilità della donna e dunque alle condizioni psicologiche che l’hanno condotta a questa scelta, tenendo quindi conto delle eventuali pressioni della famiglia, del padre, dello stato di indigenza, della paura di perdere il posto di lavoro, etc.

Seconda nota: la donna che, non potendo abortire secondo i requisiti di legge, compra su Internet o da un farmacista compiacente una pillola abortiva e poi la ingerisce deve essere sanzionata? Difficile rispondere con certezza. Si potrebbe così interpretare il testo di legge: come soggetto passivo su cui è avvenuta la pratica abortiva la donna è esente da sanzione, come soggetto attivo che ha procurato l’aborto invece sarebbe penalmente perseguibile e dunque, in conclusione, meriterebbe di essere sanzionata. Starà tutto all’interpretazione dei giudici.

Un’ultima annotazione. L’aborto procurato per stato di necessità dettato dall’intento di salvare la vita della madre non dovrebbe essere legittimato, come invece ha fatto il presente disegno di legge, ma meramente tollerato. In altri termini: una cosa è assegnare un diritto di abortire in stato di necessità, un’altra è decidere di non punire perché il carcere sarebbe sì adeguato al tipo di illecito, ossia al valore del bene leso (vita), ma non adeguato al grado di responsabilità proprio di una persona che ha agito stretta da necessità, cioè in pericolo di vita.

Nonostante questa norma sia intrinsecamente ingiusta, ciò non toglie che tale disegno di legge segna oggettivamente il passaggio da una normativa ingiusta a una normativa meno ingiusta. Il giudizio sulla legge quindi rimane negativo, invece il giudizio sul processo in corso in Alabama è positivo perché passare dal pessimo al peggio è un miglioramento, attuato per il tramite di azioni moralmente riprovevoli e dunque condannabili, ma è comunque un oggettivo miglioramento. Inoltre questa proposta probabilmente innescherà alcuni effetti positivi: un eventuale effetto emulativo in riferimento ad altri Stati (nella speranza però che l’emulazione percorra soluzioni moralmente lecite), una possibile revisione del quadro nazionale sulla tematica abortiva con il concorso della Corte Suprema, un rinvigorimento delle energie del fronte pro life, eccetera.

Da: http://www.lanuovabq.it/it/la-legge-dellalabama-ancora-ingiusta-ma-e-un-passo-avanti  (18.05.2019)

Se per i giudici l’aborto è sempre un diritto

di Giacomo Rocchi (magistrato)

Le Sezioni Unite della Cassazione sono il massimo organo giurisprudenziale del nostro Paese: quando sorge una questione importante e discussa di interpretazione di una legge, questo organo superiore viene chiamato a dire l’ultima parola sull’effettivo contenuto della norma, su ciò che l’ordinamento giuridico prevede, vieta e permette. 

Nella causa decisa con la sentenza n. 25767 depositata ieri, i genitori di una bambina affetta da sindrome di Down avevano chiesto la condanna al risarcimento del danno dei sanitari e della struttura cui si erano rivolti, sostenendo che, dopo un esame con esito negativo eseguito al quarto mese di gravidanza per verificare se il feto fosse affetto da sindrome di Down, non erano seguiti altri approfondimenti benché i valori emersi non fossero corretti, cosicché la nascita non desiderata derivava da colpa dei medici. La domanda era stata presentata sia dalla madre per i danni che ella avrebbe subito, sia da entrambi i genitori a nome della figlia per quelli che la bambina avrebbe subito per il fatto di non essere stata abortita. 

Le Sezioni Unite hanno respinto la domanda presentata a nome della bambina (sconfessando una precedente sentenza); hanno invece chiesto ulteriori approfondimenti con riferimento alla domanda di risarcimento dei danni presentata dalla madre. Ma una madre ha diritto al risarcimento del danno per la nascita indesiderata di un figlio con sindrome di down? L’affermazione delle Sezioni Unite civili della Cassazione pesa come un macigno: «Dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza delle condizioni ivi rigorosamente tipizzate non ha solo efficacia esimente da responsabilità penale, ma genera un vero e proprio diritto all’autodeterminazione della gestante di optare per l’interruzione della gravidanza» 

La legge 194 del 1978 sull’aborto, oltre ad essere iniqua, permettendo l’uccisione dell’innocente, è anche una legge ipocrita: vuole nascondere la sostanza della disciplina dietro diversi paraventi. Nei primi novanta giorni di gestazione, la libertà della donna di abortire è affermata, ma fatta precedere da un elenco di circostanze che renderebbero “pericolosa” la prosecuzione della gravidanza, anche se, in realtà, non hanno nessuna influenza sull’esecuzione dell’aborto, cui la donna può sottoporsi in ogni caso dopo sette giorni dal colloquio (artt. 4 e 5). Per l’aborto dopo i novanta giorni lo schermo creato dal legislatore è ancora più spesso: negli articoli 6 e 7 non si parla di richiesta e di decisione della donna, ma solo di grave pericolo per la sua salute fisica o psichica e di accertamento e certificazione da parte dei medici. Insomma: l’aborto è presentato come una necessità sanitaria, al pari dell’asportazione di un tumore, tanto che è espressamente previsto un intervento urgente in caso di imminente pericolo per la vita della donna. È il famoso “aborto terapeutico”. 

Le Sezioni Unite squarciano il velo e usano la parola esatta: autodeterminazione; così come nei priminovanta giorni, anche nel prosieguo della gravidanza la donna ha la libertà di scegliere di interromperla: ciò che conta è la sua volontà di abortire. Ma il periodo avanzato della gravidanza è proprio quello in cui si scoprono alcune «rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro», che il legislatore aveva premurosamente previsto come causa di possibile grave pericolo per la salute della donna: proprio come avvenuto nel caso in questione.

Tutto normale, tutto già visto: medici già condannati a risarcire i danni per avere impedito alla donnadi esercitare il suo diritto a interrompere la gravidanza, addirittura padre e fratelli anch’essi risarciti perché la presenza di un figlio e fratellino Down aveva peggiorato la loro qualità della vita … Oggi sono le Sezioni Unite a confermare che è un diritto uccidere un bambino down per la sua condizione. Del resto: non lo aveva già detto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per giustificare la diagnosi genetica preimpianto sugli embrioni (causa Costa Pavan: «il sistema legislativo italiano manca di coerenza: da un lato, esso vieta l’impianto limitato ai soli embrioni non affetti dalla malattia di cui i ricorrenti sono portatori sani; dall’altro, autorizza i ricorrenti ad abortire un feto affetto da quella stessa patologia»)? 

E non lo ha confermato la Corte Costituzionale per giustificare l’accesso alla fecondazione artificiale di coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili (sentenza n. 96 del 2015: «con palese antinomia normativa, il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali – quale consentita (…) dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 quando, dalle ormai normali indagini prenatali, siano, appunto accertati processi patologici […] relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna»)?

Forse abbiamo perso la capacità di scandalizzarci; forse diamo per scontato che la nascita di unbambino down provochi un “danno” che qualcuno, in un modo o nell’altro, deve “risarcire” e che è bene evitare; forse siamo stati educati, in questi 37 anni di vigenza, dalla legge 194, così da invocarne l’attuazione piena, invece che la sua abrogazione. Ecco: la legge 194 è questa! 

Nella sentenza delle Sezioni Unite si rinvengono molti altri spunti, anche positivi: come si è detto, èstato affermato che un bambino down o comunque disabile non ha diritto a essere risarcito per essere stato fatto nascere. La Corte, però, è attenta a non invadere campi ancora da “esplorare”: e così, dopo avere escluso che l’ordinamento riconosca il «diritto alla non vita», la sentenza si affretta a precisare che si tratta di «cosa diversa dal cd. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico)», inciso che fa apparire già esistente un diritto a morire degli adulti che l’ordinamento non riconosce affatto. 

Leggiamo poi che le Sezioni Unite respingono una «deriva eugenetica», vale a dire «il rischio di una reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell’integrità psicofisica» e richiamano la Corte Costituzionale tedesca per la «chiara negazione che la vita di un bambino disabile possa mai considerarsi un danno, sul presupposto implicito che abbia minor valore di quella di un bambino sano»: tutto molto bello, ma che non ha fatto nascere nessun dubbio di costituzionalità della legge 194; quella legge che – diciamolo ancora! – riconosce come diritto l’uccisione di un bambino innocente, come dovere per lo Stato ucciderlo su richiesta, come obbligo per i medici di segnalarlo perché si provveda alla sua eliminazione, come danno da risarcire la sua nascita. Chissà se il periodo di Natale e la festa dei Santi Innocenti ci aiuteranno a comprendere e a reagire. 

Decisioni giurisprudenziali in materie sensibili, con valore bioetico.

Avv. Franco Correzzola

giustizia

Antonio Canova
Allegoria della Giustizia

Si resta talvolta sconcertati da decisioni giurisprudenziali in materie definite sensibili, come sono il diritto alla paternità od il riconoscimento del rapporto matrimoniale tra persone dello stesso sesso, in quanto entrano in aperto conflitto con convinzioni religiose ed etiche profonde nel lettore.

Per ironia della sorte uno degli argomenti più usati nelle motivazioni, a giustificazione delle sentenze più discusse, è lo stato di necessità indotto dalla presunta inerzia del legislatore nella tutela di diritti reputati fondamentali. Curioso che anche i più feroci critici delle decisioni in questione si appellino alla medesima argomentazione ovvero la lesione di diritti naturali, inalienabili ed indisponibili.

A ben vedere, la difficoltà a conciliare le opposte fazioni sorge in virtù di un generale decadimento metodologico della c.d. Scienza giuridica nella sua fase di interpretazione ed applicazione del diritto. Vale la pena affrontare una breve disamina teorica del tema.

Come insegna il Meneghelli (Il problema dell’effettività nella teoria della validità giuridica, CEDAM 1964) il fenomeno giuridico si profila come una forma specifica di esperienza sociale che si articola tra una serie di esigenze opposte: l’esigenza della forma e del contenuto da un lato; della certezza e della verità dall’altro.

Si noti che la ragione e possibilità storica d’esistenza di un qualsiasi ordinamento giuridico si fonda sulla contrapposizione e correlazione che esiste tra la forza di condizionamento che il potere esercita sulla società e quella che la società esercita sul potere.

Il prevalere dell’uno sull’altro, sposta la bilancia a favore dell’esigenza di forma nel caso di predominio del potere sulla società, dell’esigenza di certezza e verità nel caso di reazione manifesta della società ad un ordinamento ritenuto inadeguato. Tutto ciò influisce su altro aspetto, vero cruccio della scienza giuridica: la validità giuridica dell’ordinamento sotto il profilo del rapporto tra validità ed efficacia.

Nella tradizione culturale della Res Publica Christiana, l’autorità legittima deriva da Dio e dalla sua volontà, in ogni sfera della vita umana e non. In questo senso, i rappresentanti di Dio in terra ossia la Chiesa ed i monarchi, ognuno nella propria sfera, avevano diritto all’obbedienza.

Non a caso il testo politico fondamentale fino all’epoca medioevale è l’epistolario di San Paolo ai Romani (13, 1-5) “Ognuno stia sottomesso alle autorità che sono al potere; poiché non c’è autorità che non venga da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio”.

Così, se era responsabilità della Chiesa proclamare la legge divina, era responsabilità dei re (o dei governi civili) realizzare i valori temporali, che s’incarnavano nella legge naturale, definita come quella ragione naturale che Dio ha stabilito tra gli uomini (di qui la massima: Rex non sub homine, sed sub Deo ac lege).

Gli uomini avevano l’obbligo di obbedire all’autorità del re o del governo civile, tuttavia esisteva un limite alla volontà del re (o del governo civile) in quanto essa doveva conformarsi alla legge naturale. Un individuo od una comunità avevano il diritto di resistere e ribellarsi al tiranno, cioè all’autorità che non rispettava la legge naturale espressione della volontà divina. In questo modo, il cristianesimo occidentale, pur facendo discendere l’autorità politica direttamente da Dio, riconosceva l’importanza del consenso della comunità politica (all’uomo, con la cacciata dal Paradiso, è stata data la capacità di distinguere tra il bene ed il male). A scalzare la concezione teocentrica è intervenuto lo spirito scientifico, il quale si fonda sul concetto di soggettività della conoscenza espresso da Cartesio e sviluppato alle sue estreme conseguenze da Hume: nessuno possiede il monopolio della verità, non esistono cioè verità ultime indimostrabili. Nella nuova concezione antropomorfa, la fonte dell’autorità è il consenso popolare. Al posto della Res Publica Christiana viene posta la nazione ossia l’identificazione identitaria di un popolo in un dato territorio. L’eccesso d’interpretazione soggettiva delle norme porta però al decadimento del principio di certezza del diritto e pertanto l’impostazione entrò presto in crisi. Una volta ripudiata la dottrina del diritto naturale, la scienza giuridica si è trovata ad affrontare il problema della distinzione tra validità giuridica e validità empirica. Il fatto che le norme fossero emanate da parte di un soggetto umano è empiricamente verificabile, tuttavia questo pone il problema di dare una significato alla legittimazione del soggetto medesimo. In altre parole, affermata la validità giuridica in forza della legittimazione del soggetto che ha emanato le norme, necessita definire il concetto stesso di autorità legittima. Allo scopo non può servire un criterio di natura ideologica, poiché il canone ermeneutico perderebbe la sua stessa natura di certezza dogmatica e scientifica, pertanto si è ricorsi in primo luogo ad un criterio di tipo empirico: è potere legittimo quello che è effettivo ossia quello che riesce ad imporsi e governare. I limiti della premessa sono evidenti. Per salvare l’autonomia del concetto di legittimità, la scienza giuridica ha dovuto per forza considerare l’effettività del potere non come una semplice imposizione ma con riferimento ad una ideologia. Costretta pertanto suo malgrado a far ricorso ad un criterio ideologico, senza poter rinunciare alle proprie premesse metodologiche, non è rimasto che fondare la legittimità del potere (e conseguente validità giuridica delle norme dallo stesso emanate) in forza di un criterio eminentemente formale. Sorge in tal modo la difficoltà a stabilire in base a quale criterio la sovranità formale dello Stato e la validità logico ipotetica di un sistema normativo possa conservare il carattere di positività. Il criterio cui la dottrina è ricorsa è ancora una volta quello dell’effettività: uno Stato può dirsi formalmente sovrano od un sistema normativo può dirsi giuridicamente valido, se le norme dallo stesso emanate sono nel complesso osservate ed applicate. Il lettore comprende l’effetto dirompente della premessa: la disapplicazione di norme vigenti in via giurisprudenziale, anche se per motivate ragioni, mina direttamente la sovranità e legittimità dell’ordinamento.

Il maggior teorico della teoria formalistica, il Kelsen, per impedire che le norme singole fossero accertate come valide in base allo stesso criterio di validità dell’ordinamento, ha introdotto un doppio concetto di validità giuridica ed al tempo stesso di positività.

Per Kelsen, un sistema normativo è valido se nel suo complesso è efficace, mentre le singole norme sono valide se poste in essere secondo il procedimento prescritto dalla norma fondamentale (Grundnorm). Questa scuola, sorta in polemica con la dottrina del diritto naturale, ha ritenuto di dover applicare al fenomeno giuridico dei metodi di ricerca propri delle scienze naturalistiche, ritenendo così di addivenire ad un concetto di validità giuridica indipendente da ogni presupposto ideologico.

Sul piano storico culturale, la stessa corrisponde alla preminenza avuta dall’ideologia del positivismo nei confronti di quella del giusnaturalismo. Nella realtà ci si è limitati a sostituire il criterio di origine con un altro, secondo il quale a condizionare l’esistenza storica dell’ordinamento è solo la forza di condizionamento del potere ed a determinare il concetto di validità giuridica sono solo le esigenze della forma e della certezza.

Tutto ciò finisce per negare il diritto stesso come valore. L’esperienza anglosassone si differenzia pertanto da quella continentale proprio sul punto in questione ovvero la c.d. Norma fondamentale. A fronte dell’esigenza di garantire attraverso una Carta dei diritti (Bill of Rights) la capacità di condizionamento della società sull’ordinamento giuridico, nel caso della Grundnorm kelseniana prevale l’esigenza di certezza formale e la carta costituzionale viene raffigura come immutabile e fonte di legittimità dell’ordinamento. Tutto ciò finché le esigenze di verità e contenuto, di pari passo con la crisi dello Stato di diritto, prevarranno su quelle della certezza e della forma. Quanto sopra esposto ci porta ad esaminare gli aspetti di legittimità dell’ordinamento alla luce di quello che il Meneghelli definisce il “miraggio dell’autorità legittima” Chiarita l’inscindibilità del principio di legittimità dell’ordinamento da quello di legittimità dell’autorità che lo emana, serve concentrare l’analisi su quest’ultimo aspetto. Se il potere è forza e coercizione, sottostare ad esso, da parte di chi ha bisogno del suo ordine e della sua pace è necessità, non obbligo. La dogmatica giuridica che pretende legittimo il potere solo perché effettivo, prende atto di questo e rappresenta la giustizia come il premio della forza. La legittimazione dell’autorità è pertanto autoreferenziale in forza della sua effettività. Alcuni autori (Hobbes, Locke, Spencer) hanno ritenuto di attribuire detta legittimità in forza del principio del consenso sociale, esplicito o tacito, il quale renderebbe giusta e legittima la coercizione del potere sulla società stessa. Il diritto del potere ad essere obbedito è il prodotto di una deliberazione, anche tacita, degli individui ovvero il contratto sociale. A ben vedere, il limite della teoria è imposto dalla mancanza di reale alternativa dell’individuo nei confronti della scelta in questione: il problema non è la scelta tra sottomissione o meno, ma è dato dalla realtà di abitudine all’obbedienza. Tuttavia, in base al principio del consenso, le attuali democrazie hanno fondato la propria legittimazione sulla c.d. Sovranità popolare. Il legislatore, delegato dalla volontà popolare in forza della Carta Costituzionale, emana legittimamente norme dal carattere obbligatorio e vincolante per tutti i cittadini (dal principio di effettività ovvero probabilità d’osservanza consegue poi la loro legittimità). La funzione del Giudice, applicatore nel concreto delle norme cui rimane interamente sottoposto, è così ben distinta da quella del legislatore, in quanto la sua legittimazione è derivata dall’ordinamento stesso. Affermare pertanto per via giurisprudenziale l’inefficacia delle norme positive, porta al decadimento della legittimazione stessa dell’ordinamento, per conseguente conflitto col principio di sovranità popolare. In conclusione, l’attività di supplenza normativa da parte della giurisprudenza, pur eventualmente indotta da ragioni di necessità, pone seri problemi di riconoscimento di legittimità alle decisioni stesse, tranne per l’ipotesi meramente coattiva (empiricamente, se la forza è fonte stessa di legittimità, il suo detentore si autolegittima).