Se per i giudici l’aborto è sempre un diritto

di Giacomo Rocchi (magistrato)

Le Sezioni Unite della Cassazione sono il massimo organo giurisprudenziale del nostro Paese: quando sorge una questione importante e discussa di interpretazione di una legge, questo organo superiore viene chiamato a dire l’ultima parola sull’effettivo contenuto della norma, su ciò che l’ordinamento giuridico prevede, vieta e permette. 

Nella causa decisa con la sentenza n. 25767 depositata ieri, i genitori di una bambina affetta da sindrome di Down avevano chiesto la condanna al risarcimento del danno dei sanitari e della struttura cui si erano rivolti, sostenendo che, dopo un esame con esito negativo eseguito al quarto mese di gravidanza per verificare se il feto fosse affetto da sindrome di Down, non erano seguiti altri approfondimenti benché i valori emersi non fossero corretti, cosicché la nascita non desiderata derivava da colpa dei medici. La domanda era stata presentata sia dalla madre per i danni che ella avrebbe subito, sia da entrambi i genitori a nome della figlia per quelli che la bambina avrebbe subito per il fatto di non essere stata abortita. 

Le Sezioni Unite hanno respinto la domanda presentata a nome della bambina (sconfessando una precedente sentenza); hanno invece chiesto ulteriori approfondimenti con riferimento alla domanda di risarcimento dei danni presentata dalla madre. Ma una madre ha diritto al risarcimento del danno per la nascita indesiderata di un figlio con sindrome di down? L’affermazione delle Sezioni Unite civili della Cassazione pesa come un macigno: «Dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza delle condizioni ivi rigorosamente tipizzate non ha solo efficacia esimente da responsabilità penale, ma genera un vero e proprio diritto all’autodeterminazione della gestante di optare per l’interruzione della gravidanza» 

La legge 194 del 1978 sull’aborto, oltre ad essere iniqua, permettendo l’uccisione dell’innocente, è anche una legge ipocrita: vuole nascondere la sostanza della disciplina dietro diversi paraventi. Nei primi novanta giorni di gestazione, la libertà della donna di abortire è affermata, ma fatta precedere da un elenco di circostanze che renderebbero “pericolosa” la prosecuzione della gravidanza, anche se, in realtà, non hanno nessuna influenza sull’esecuzione dell’aborto, cui la donna può sottoporsi in ogni caso dopo sette giorni dal colloquio (artt. 4 e 5). Per l’aborto dopo i novanta giorni lo schermo creato dal legislatore è ancora più spesso: negli articoli 6 e 7 non si parla di richiesta e di decisione della donna, ma solo di grave pericolo per la sua salute fisica o psichica e di accertamento e certificazione da parte dei medici. Insomma: l’aborto è presentato come una necessità sanitaria, al pari dell’asportazione di un tumore, tanto che è espressamente previsto un intervento urgente in caso di imminente pericolo per la vita della donna. È il famoso “aborto terapeutico”. 

Le Sezioni Unite squarciano il velo e usano la parola esatta: autodeterminazione; così come nei priminovanta giorni, anche nel prosieguo della gravidanza la donna ha la libertà di scegliere di interromperla: ciò che conta è la sua volontà di abortire. Ma il periodo avanzato della gravidanza è proprio quello in cui si scoprono alcune «rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro», che il legislatore aveva premurosamente previsto come causa di possibile grave pericolo per la salute della donna: proprio come avvenuto nel caso in questione.

Tutto normale, tutto già visto: medici già condannati a risarcire i danni per avere impedito alla donnadi esercitare il suo diritto a interrompere la gravidanza, addirittura padre e fratelli anch’essi risarciti perché la presenza di un figlio e fratellino Down aveva peggiorato la loro qualità della vita … Oggi sono le Sezioni Unite a confermare che è un diritto uccidere un bambino down per la sua condizione. Del resto: non lo aveva già detto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per giustificare la diagnosi genetica preimpianto sugli embrioni (causa Costa Pavan: «il sistema legislativo italiano manca di coerenza: da un lato, esso vieta l’impianto limitato ai soli embrioni non affetti dalla malattia di cui i ricorrenti sono portatori sani; dall’altro, autorizza i ricorrenti ad abortire un feto affetto da quella stessa patologia»)? 

E non lo ha confermato la Corte Costituzionale per giustificare l’accesso alla fecondazione artificiale di coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili (sentenza n. 96 del 2015: «con palese antinomia normativa, il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali – quale consentita (…) dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 quando, dalle ormai normali indagini prenatali, siano, appunto accertati processi patologici […] relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna»)?

Forse abbiamo perso la capacità di scandalizzarci; forse diamo per scontato che la nascita di unbambino down provochi un “danno” che qualcuno, in un modo o nell’altro, deve “risarcire” e che è bene evitare; forse siamo stati educati, in questi 37 anni di vigenza, dalla legge 194, così da invocarne l’attuazione piena, invece che la sua abrogazione. Ecco: la legge 194 è questa! 

Nella sentenza delle Sezioni Unite si rinvengono molti altri spunti, anche positivi: come si è detto, èstato affermato che un bambino down o comunque disabile non ha diritto a essere risarcito per essere stato fatto nascere. La Corte, però, è attenta a non invadere campi ancora da “esplorare”: e così, dopo avere escluso che l’ordinamento riconosca il «diritto alla non vita», la sentenza si affretta a precisare che si tratta di «cosa diversa dal cd. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico)», inciso che fa apparire già esistente un diritto a morire degli adulti che l’ordinamento non riconosce affatto. 

Leggiamo poi che le Sezioni Unite respingono una «deriva eugenetica», vale a dire «il rischio di una reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell’integrità psicofisica» e richiamano la Corte Costituzionale tedesca per la «chiara negazione che la vita di un bambino disabile possa mai considerarsi un danno, sul presupposto implicito che abbia minor valore di quella di un bambino sano»: tutto molto bello, ma che non ha fatto nascere nessun dubbio di costituzionalità della legge 194; quella legge che – diciamolo ancora! – riconosce come diritto l’uccisione di un bambino innocente, come dovere per lo Stato ucciderlo su richiesta, come obbligo per i medici di segnalarlo perché si provveda alla sua eliminazione, come danno da risarcire la sua nascita. Chissà se il periodo di Natale e la festa dei Santi Innocenti ci aiuteranno a comprendere e a reagire. 

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