Edith Stein

di Miriana Parentini Dureghello

La passione per l’intero di Edith Stein

Edith Stein nacque a Breslavia il 12 ottobre 1891, nel giorno dello Yom Kippur, la festa del Perdono, era tedesca di lingua e di cultura ma di stirpe ebraica, allora molto sospettata. Il padre, commerciante di legname, morì quando Edith aveva solo due anni, fu la madre, anche lei figlia di commercianti, a portare avanti brillantemente gli affari e a mantenere i suoi sette figli. Il fascino della madre su Edith veniva dalle qualità straordinarie di quella donna, signora della casa e intraprendente negli affari, tuttavia questa non riuscì a trasmettere i valori dell’ebraismo ai propri figli. La sua era una famiglia di antica tradizione ebraica, seguivano i ritmi religiosi, ma in modo piuttosto superficiale, soltanto la madre, Edith e un’altra sorella compivano tutto con dignità e convinzione, era invece evidente che gli altri non prendevano sul serio le cose sacre.

Edith da sempre amò il sapere, era una ragazza sveglia e già molto colta quando, tra i quindici e sedici anni, le venne un senso di profondo rifiuto, entrò in una crisi che la trasse fuori dall’immaturità umana di quell’età spingendola verso un precoce ateismo abbastanza convinto. Trovava troppo esteriore e formalistico ciò che si usava fare in sinagoga, trovava che, almeno tra gli ebrei della Bassa Slesia, si mancasse di una vera spiritualità: erano aridi e tendevano a un praticismo che chiamavano concretezza, anzi scientificità. Per loro contava la ragione, non la fede. E ormai anche Edith stava prendendo quell’orientamento.
All’università di Breslavia, nel corso dello psicologo Stern, Edith è incuriosita dalla psicologia razionale della Scuola di Wurzburg, in particolare da Edmund Husserl. Dopo aver studiato i due tomi di “Ricerche logiche” si convinse di voler seguire le sue lezioni a Gottinga, poiché lì “…si studiano le anime, non i libri. Si entra nel profondo della persona per vederne le reazioni e le contraddizioni” . La sua indipendenza e la sua coerenza nella ricerca intellettuale e morale sono le due molle che le danno la forza di allontanarsi da casa e dall’ambiente di Breslavia e di iniziare il nuovo periodo di studi a Gottinga. Entra così nell’ambiente filosoficamente fecondissimo di Husserl, nato come scienziato e matematico, passato poi alla filosofia, di matrice ebraica, convertito alla visione cristiana della vita soprannaturale, fondatore della Scuola Fenomenologica.
Proprio allora cominciò ad occuparsi del tema dell’empatia (Einfuhlung), si professava agnostica e realista, ma era colpita dai valori cristiani che iniziava ad intuire, qualcosa andava cambiando dentro di lei, iniziava a traballare il suo razionalismo, o meglio la tendenza di ridurre tutto alla ragione e il credere che con essa tutto si spieghi. La passione per la verità, che è il tratto tipico di Edith Stein, prende corpo in un ambiente senza pregiudizi, attento all’esperienza umana in tutte le sue forme, rispettoso verso tutti i vissuti, anche quelli religiosi. La religione viene rivalutata nel suo essere un vissuto serio e profondo.
Husserl stesso le chiese di fare con lui la tesi di laurea, le chiese di verificare quanto fosse vero che “un mondo esterno oggettivo può essere ben captato e sperimentato solo in un rapporto tra vari soggetti” che si scambino le loro reazioni e arrivando così ad un livello più alto di quello che ciascuna di esse può raggiungere da sola. Avrebbe dovuto approfondire in cosa consisteva questa esperienza interdipendente confrontando il pensiero di Husserl con quello di Teodoro Lipps. Conseguì il titolo di “dottoressa in filosofia” nel gennaio del 1915, con la massima lode, e in aprile si offrì come volontaria della Croce Rossa, fu chiamata in Austria, sui Carpazi, dove la guerra infieriva con molti morti.
Al suo rientro riallacciò i rapporti con Husserl, conobbe Heidegger e collaborò alle sue opere. Rivedendo la sua tesi ebbe la sensazione che fosse tutta da rifare, avrebbe voluto capire veramente cosa fosse davvero l’empatia. Approfondì ulteriormente questa tematica scrivendo la tesi di dottorato “Il problema dell’empatia” nel 1917 e Husserl, comprendendo l’acutezza della dissertazione, le riconobbe la “summa cum laude” e la scelse come sua assistente.
Nell’estate di quello stesso anno ricevette da una cara amica una tremenda notizia: suo marito, un giovane professore che molto aveva fatto per Edith, era morto in guerra. Edith si precipitò a portare il suo conforto alla giovane donna, ma non trovò la disperazione che si aspettava. L’amica era di una forza e serenità inspiegabili umanamente. L’anno precedente, assieme al marito, si era convertita dall’ebraismo al cristianesimo e l’incontro con Cristo, con il mistero della sua passione, morte e risurrezione le dette nuovi parametri di vita e una ragione più alta per accettare quei momenti drammatici. Questa fede interrogò Edith e il suo sistema di falsa neutralità e indifferenza religiosa, più tardi disse che in quel momento la luce di Cristo spuntava nel suo cuore.
Il primo frutto del suo lavoro con Husserl fu la preparazione per la stampa di “La coscienza del tempo”, non si trattava solo di far da segretaria al filosofo, andava infatti già maturando sempre più idee sue che confrontava con il suo maestro e con altri illustri filosofi del tempo come Heidegger, che studiò con lei a Gottinga e con cui discusse l’impostazione di un proprio libro, che stava imbastendo ma che finì molto tempo dopo: “Essere finito ed Essere eterno”. A muoverla non era il gusto delle pure nozioni, ma l’amore della verità. Un more forte che non si fondava solo sull’intelligenza, scrisse in seguito:” la sete di sapere era, per il momento, la mia unca forma di orazione”; e: “chi cerca la verità, consapevole o no, cerca Dio”, espressione rivolta a proposito di Husserl che molti aveva suggestionato portandoli alla conversione. Intanto Edith non era tra quelli, anzi i rapporti con il suo maestro si facevano sempre più faticosi, restava una sua discepola devota, ma ugualmente critica e già entro il primo semestre di servizio aveva in mente di far valere le sue posizioni filosofiche che in parte differivano da quelle di Husserl. Fu così che nel febbraio del 1918 gli comunicò di volersi ritirare dalle sue mansioni.
A Bergzabern, nel Palatinato, in una delle regioni più cattoliche della Germania, durante una sua visita a degli amici nel periodo delle vacanze, ebbe una sera l’occasione di rimanere sola nella biblioteca della famiglia che la ospitava, senza scegliere prese il primo libro che le capitò sotto mano: Vita di santa Teresa d’Avila, scritta da lei stessa. Quando chiuse il libro confessò a se stessa: Questa è la verità!”, era l’estate del 1921. Quel mattino, dopo una notte insonne, si recò in città e comprò due libri che certo non prese a caso: un catechismo cattolico e un messalino. Fu battezzata nel Capodanno del 1922 da mons. Schwind, vicario generale della diocesi, che rimase profondamente colpito dalla profonda cultura teologica della giovane.
Anche dopo la sua conversione continuò in quello che nella sua stessa scuola di psicologia e filosofia si seguiva, creare cioè un rapporto veramente “empatico” delle persone con le verità cristiane. Don Conrad Karl Schwind, nipote di mons. Schwind, confermava: “Quanto grande fosse il suo desiderio di arrivare alla Verità è dimostrato dalla sua conversione, dal suo continuo studiare e dalla sua indefessa ricerca di Dio” .
Tra i suoi amici anche i più superficiali notarono il cambiamento di Edith, ad essi spiegò le nuove disposizioni con cui affrontava la vita interna e scientifica, certo quel che aveva sempre sostenuto Husserl e ribadito Max Scheler, psicologo con cui manteneva un profondo rapporto di stima, e cioè che bisognava guardare la verità senza pregiudizi e che è del tutto possibile coltivare la scienza ed essere credenti cattolici , lo fece suo.
Riesaminando tutta la fenomenologia disponeva ora di una capacità critica molto accresciuta rispetto agli anni in cui si confrontava con Husserl, nuove idee la sostenevano penetrando il pensiero di san Tommaso, l’Aquinate che diceva cose antiche e ancora nuove.
In particolare fece sua la nozione di partecipazione, atteggiamento tipico della filosofia cristiana che traduce il dato creazionale come tipicità dell’essere degli enti. Da qui deriva la nozione di “trascendentale” adottata da Edith e la sottolineatura della “forma” nella sua antropologia. Tradusse con fedeltà le opere di San Tommaso cominciando dalle Questiones disputatea de veritate, che completò nel 1928, e pubblicando due volumi in un’edizione arrivata qualche anno dopo. San Tommaso interessava a Edith per se stesso e per il confronto che lei riuscì a stabilire con la fenomenologia di Husserl e in particolare con l’empatia, tema di speciale attenzione per lei che scrisse il libro ”L’empatia nella filosofia” nel 1917. Anche nell’introduzione del suo “Essere finito ed Essere eterno” emerge l’intima necessità di confrontare i modi diversi di filosofare espressi da Husserl e san Tommaso, intuizioni preziose per la nostra riflessione che cercherò di evidenziare nel prossimo capitolo.
Al suo amico Heidegger, Edith criticava una concezione del mondo senza Dio, nell’opera “Essere ed esistere” del 1927, e si augurava che trovasse un fondamento assoluto, Dio appunto. Rimproverava alla filosofia moderna di ritornare al naturalismo dell’antichità greca passando sotto silenzio la filosofia medioevale, ma si domandava anche se fosse possibile per la tradizione antica confluita nei cristiani medioevali far propria la problematica della impostazione della fenomenologia senza assumere insieme il suo idealismo trascendente. Salvando l’io sentiva di salvare la sua vocazione che era quella di rimanere dentro la modernità, non rimase prigioniera del passato, ma riuscì ad abitare e oltrepassare la modernità salvando ciò che di buono portava. Riconobbe ad esempio all’illuminismo razionalistico il valore della libertà e l’importanza della ragione, Edith si sentiva libera ed era consapevole di essere un soggetto autonomo; del soggettivismo contemporaneo salvò l’io inteso come soggetto pensante, considerò una sfida la ricerca di quanto vi sia di inesplorato nella profondità dell’io.
Il 14 ottobre del 1938 Edith entrò al Carmelo di Colonia, il nome che assunse fu Teresa Benedetta della Croce. La politica del Terzo Reich la costrinse a lasciare il Carmelo di Colonia e si trasferì ad Echt, in Olanda, il 31 dicembre 1938. Alcuni mesi dopo la raggiunse anche la sorella Rosa in qualità di aiutante esterna. Edith e Rosa vennero arrestate il pomeriggio del 2 agosto 1942 e portate ad Amensfoort, campo di passaggio per Westerbork, campo dove Edith visse con intensità e la vide partire per Auschwitz dove morì insieme alla sorella il 9 agosto.
Edith Stein è stata beatificata a Colonia nel 1997 e canonizzata a Roma nel 1998.

L’empatia nell’antropologia psicologica di Edith Stein

Penetrò in Edith la grande scoperta di Husserl: il mondo dei vissuti.
Husserl non nega, ma tiene in sospeso il mondo empirico così come esso è concentrandosi piuttosto sulle modalità con le quali le cose sono date alla coscienza di ogni uomo, i vissuti appunto, esperiti da un io trascendentale.
Il mondo dei vissuti è inteso come modalità universale con la quale si presentano i vissuti umani quando sono analizzati dall’io; non si tratta di biografie, ma dei modi universali con cui ogni uomo percepisce sia eventi cognitivi che affettivi ed emotivi.
Il luogo in cui si attuano i vissuti umani non è unicamente la coscienza del proprio io, infatti un posto di prim’ordine è dato anche dalla relazione, dall’intersoggettività, intesa come “senso dell’altro”, laddove emergono amore, odio, empatia, religione, linguaggio…: i vissuti di alterità.
La fenomenologia accolta da Edith Stein si basa sull’epochè, l’osservazione rigorosa, un esercizio di pensiero finalizzato a rimuovere le ovvietà e accogliere le essenze delle cose, cioè i dati che non possono essere rimossi dal nostro pensare e che costituiscono l’universale della mente e degli affetti. L’intelletto si rivolge a ciò che interroga considerandolo “altro”, senza interpretarlo in maniera previa, così facendo vengono svelati i pregiudizi che lo avrebbero condizionato e diventa possibile lasciar emergere la profondità dell’io. È necessaria una profonda onestà pensando alla verità non come un dato ottenuto una volta per tutte, ma come un cammino da percorrere.
L’antropologia di Edith Stein si è sviluppata tenendo sempre conto dell’alterità e dell’interiorità delle relazioni mantenendo il contesto moderno della ricerca dell’orizzonte di senso. Per la Stein dietro l’io di ogni uomo c’è Dio, l’io si rivela essere un mistero di relazione poiché, pur essendo autonomo e centro stesso di autonomia e di libertà, è collegato con l’io-sono di Dio.
Solo l’uomo nella propria coscienza riconosce una dimensione interiore, dove si rimane uniti, pur nella dispersione del vivere, dove si è in grado di pensare e di stare in intimità con se stessi. Ma l’io non può essere pago di se stesso, tocca in sé un’esperienza di vuoto che chiede di essere riempito:”Nell’io c’è qualcosa di più grande dell’io”, e può essere riempito soltanto dall’io di Dio.
Intende la realtà come essere, ma in relazione al senso dell’essere e alla coscienza. Pensa all’essere umano come Dasein, ma contrariamente alla concezione di Heidegger, l’io per la Stein è persona, appartiene contemporaneamente all’anima e al corpo, è unificato; inoltre rimane se stesso pur proiettandosi nel passato attraverso la memoria e nel futuro tramite la progettualità, la sua è un’antropologia attenta all’intero della vita umana.
Nella sua concezione del senso dell’essere emerge il suo accostamento a San Tommaso, ma nulla della sua impostazione fenomenologica è perso. Nel suo testo “La fenomenologia di Husserl e la filosofia di San Tommaso d’Aquino” presenta la capacità del metodo fenomenologico di rinnovare la Scolastica.
L’essere di Tommaso diviene in Edith un esser-ci nel senso che l’essere finito è in dialogo con l’Essere eterno e la persona umana è il luogo particolare di tale dialogo, proprio nell’opera “Essere finito ed Essere eterno” la filosofa presenta il percorso che conduce il realismo tomista, senza mai semplificarlo, al recupero del nucleo critico della contemporaneità: il senso del vivere.
L’originalità di Edith Stein, che emerge in tutte le sue opere, è la relazione a partire dal senso dell’essere in cui i vissuti della coscienza sono sempre raccordati ai vissuti degli altri.
Il termine “empatia”, in tedesco “Einfuhlung”, non dev’essere banalizzato, nel circolo di Gottinga significava un oggetto in relazione alla propria interiorità, trasmettendogli qualcosa di sé e riconoscendo qualcosa di sé stessi in esso. Nell’analisi degli stati di coscienza l’oggetto non viene solo percepito, ma sentito all’interno, rivissuto, animato, vissuto in relazione al proprio io. Per Edith Stein l’espressione traduceva una percezione comunionale dell’altro in quanto soggetto spirituale, una percezione dell’altro in quanto fonte di sé, non un’aggiunta, ma parte, fonte di sé.
La Stein è partita dall’analisi della tipologia della presenza: la presenza degli altri non è come la presenza di un tavolo o di un fiume, l’altro non si limita a comparire nel mio orizzonte percettivo, ma si esprime nel mio orizzonte di vita.
“Quando guardo una persona negli occhi, allora scopro per dir così il suo essere un io, dalla direzione dello sguardo si esprime l’orientamento spirituale” . È un’irruzione in me, un ignoto, nell’incontro vengono messi in discussione i confini di ciò che chiamiamo “io”, l’empatia è il nucleo della relazione, è la base della relazione con l’altro. Empatia è contemporaneamente “io” e “altro”, interiorità ed alterità, è il fondamento di tutti gli atti con cui viene colta la vita psichica altrui.
Empatia è “amore per”, è il viversi in relazione a qualcosa di altro da me. Spesso compiere determinati atti, avere determinati impulsi e desideri non vuol dire viverli; per viverli è necessario un intimo assenso, o dissenso, alla profondità del nostro essere. Questo invece è spesso mascherato da pretesti, giustificazioni e si svela o si tradisce attraverso turbamenti, piaceri o dispiaceri corporei. Il luogo dei significati è l’anima, il vissuto dell’anima è il bisogno di senso, di riempimento e di forza. Tutto ciò non viene da se stessi.
L’empatia è il segno visibile, la manifestazione della ricettività senza la quale l’esperienza rimane chiusa nell’io, ma sulla superficie e non agisce mai in profondità. E’ il sentimento necessario a far contatto con la vita che si porta dentro di sé ed è sempre direzionata al massimo del significato, cioè allo spirito. Solo la persona umana “sboccia verso l’interno”, la spiritualità non è astratta ed eterea, ma è toccare il proprio sé e dimorarvi, il contatto con se stessi è il vissuto dell’anima.
Comprendendo il concetto di empatia è possibile cogliere come esso unifichi le diverse dimensioni dell’essere umano quali corporeità, psiche e spiritualità. La relazione con l’altro rivela il complesso gioco di dipendenza e autonomia tra vita psico-fisica e spirituale. L’empatia è legata alla corporeità ed alla spiritualità al tempo stesso, rivela il grande valore del corpo e soprattutto la sua natura di segno in quanto esso rimanda ad altro ed è relazione di interiorità. Il vissuto del corpo è un vissuto di ulteriorità, cioè un vissuto che immerge nella trascendenza relazionale dell’”oltre”, non l’oltre nel senso di qualcosa di ultreterreno, ma nel senso della profondità. Vivendo il proprio corpo si è rimandati nell’interiorità dell’io.
L’empatia rivela la grandezza del sentire: “sentir male è sentir poco. Oggi la relazione è un canale ostruito”, il mondo è irrigidito, come ibernato ed è necessario sviluppare la nostra sensibilità per sentire e capire unitariamente. Il sentire è importantissimo perché il mondo dei sentimenti è la zona più profonda dell’uomo, il non sentire coincide col non sentire abbastanza realtà.
Di quanta più realtà una sensibilità diventa capace, tanto più esatto sarà, da un lato, il sentimento delle differenze e delle priorità di valore, e dall’altro la ricchezza della sua personalità e il suo grado di individuazione. Qui essere e bene coincidono senza violenza per il senso comune perché si decresce in personalità e unicità nella misura in cui si riduce il sentimento di realtà, e nella misura in cui questo aumenta, si cresce. Non c’è limite al crescere possibile, mentre c’è un limite inferiore, lo zero del sentire personale, dove cessa ogni identità individuale: il luogo dell’uniformità, dove la vita pulsionale, appetitiva si fa cieca forza, e del pensiero non resta che luogo comune e ideologia.
Si può dire dell’empatia che essa sia una relazione di trascendenza poiché l’altro non è colui che descrivo, ma colui che incontro. Non è riducibile a me, non esiste a partire da me. L’altro è ulteriore a me, è più di quanto io capisca, posso coglierlo sul versante esteriore, della comunicazione, ed uno interiore che mi si fa presente nella totalità della persona. È un intero di cui scorgo solo una parte, più mi inoltro nel suo “intero”. Empatia è non giudicare l’intero, questo non significa non indignarsi, non detestare azioni disoneste eccetera, ma non giudicare dell’essere di una persona.
L’attuazione dell’empatia corrisponde ad un “rendersi conto” che è relazionale, che trasforma anche me stesso per l’effetto dell’entrare nel mio orizzonte del sentire altrui. Sono allora invitato ad allargare la mia esperienza per accogliere la trascendenza dell’altro.
“Mentre cerco di chiarire a me stesso lo stato d’animo in cui l’altro si trova, questo non è più oggetto in senso proprio, ma mi ha coinvolto in sé. Ora non sono più rivolto verso di lui, ma sono presso il suo soggetto, sono al posto di questo”.
E ancora:” Un amico – scrive la filosofa – viene da me e mi racconta che ha perduto suo fratello e io mi rendo conto del suo dolore. Che cos’è questo rendersi conto? Non mi interessa qui capire su che cosa si fonda il suo dolore o da che cosa lo deduco(…). Non per quali vie arrivo a questo rendermi conto, ma che cosa è in se stesso, questo è ciò che vorrei sapere” .
Possiamo ora dire che l’empatia significa rendersi conto dell’essere in relazione e non un avvicinarsi al dolore fuori di sè, mediante un atto cognitivo o una rievocazione di un dolore vissuto precedentemente, questo si ridurrebbe ad un rimanere presso di sé, mentre l’empatia è un movimento verso l’altro, non un fare, ma un essere in movimento di ospitalità e di ascolto, è un ospitare la relazione, un uscire da sé per rientrarvi con l’altro .
Ci siamo rivolti al terapeuta credente offrendogli soltanto una proposta, un possibile sentiero da percorrere, ma già qui emerge come la lezione della Stein offra un valido punto di riferimento per la comprensione dell’essere umano, non in astratto, ma in un’intuizione data dall’esperienza. La filosofa ci dà la possibilità di mantenere integra la persona, non solo aperta al trascendente, ma costitutivamente tesa all’altro e all’Altro; traccia un percorso in cui viene valorizzata la filosofia cristiana, specie quella Scolastica, ma senza sottrarsi alla sfida della modernità (e della postmodernità), offrendo una base filosofica-antropologica su cui innestare una nuova psicoterapia, rispettosa della struttura ultima dell’essere umano e del valore della persona intesa come unità di corpo vivente e anima .

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