Decisioni giurisprudenziali in materie sensibili, con valore bioetico.

Avv. Franco Correzzola

giustizia

Antonio Canova
Allegoria della Giustizia

Si resta talvolta sconcertati da decisioni giurisprudenziali in materie definite sensibili, come sono il diritto alla paternità od il riconoscimento del rapporto matrimoniale tra persone dello stesso sesso, in quanto entrano in aperto conflitto con convinzioni religiose ed etiche profonde nel lettore.

Per ironia della sorte uno degli argomenti più usati nelle motivazioni, a giustificazione delle sentenze più discusse, è lo stato di necessità indotto dalla presunta inerzia del legislatore nella tutela di diritti reputati fondamentali. Curioso che anche i più feroci critici delle decisioni in questione si appellino alla medesima argomentazione ovvero la lesione di diritti naturali, inalienabili ed indisponibili.

A ben vedere, la difficoltà a conciliare le opposte fazioni sorge in virtù di un generale decadimento metodologico della c.d. Scienza giuridica nella sua fase di interpretazione ed applicazione del diritto. Vale la pena affrontare una breve disamina teorica del tema.

Come insegna il Meneghelli (Il problema dell’effettività nella teoria della validità giuridica, CEDAM 1964) il fenomeno giuridico si profila come una forma specifica di esperienza sociale che si articola tra una serie di esigenze opposte: l’esigenza della forma e del contenuto da un lato; della certezza e della verità dall’altro.

Si noti che la ragione e possibilità storica d’esistenza di un qualsiasi ordinamento giuridico si fonda sulla contrapposizione e correlazione che esiste tra la forza di condizionamento che il potere esercita sulla società e quella che la società esercita sul potere.

Il prevalere dell’uno sull’altro, sposta la bilancia a favore dell’esigenza di forma nel caso di predominio del potere sulla società, dell’esigenza di certezza e verità nel caso di reazione manifesta della società ad un ordinamento ritenuto inadeguato. Tutto ciò influisce su altro aspetto, vero cruccio della scienza giuridica: la validità giuridica dell’ordinamento sotto il profilo del rapporto tra validità ed efficacia.

Nella tradizione culturale della Res Publica Christiana, l’autorità legittima deriva da Dio e dalla sua volontà, in ogni sfera della vita umana e non. In questo senso, i rappresentanti di Dio in terra ossia la Chiesa ed i monarchi, ognuno nella propria sfera, avevano diritto all’obbedienza.

Non a caso il testo politico fondamentale fino all’epoca medioevale è l’epistolario di San Paolo ai Romani (13, 1-5) “Ognuno stia sottomesso alle autorità che sono al potere; poiché non c’è autorità che non venga da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio”.

Così, se era responsabilità della Chiesa proclamare la legge divina, era responsabilità dei re (o dei governi civili) realizzare i valori temporali, che s’incarnavano nella legge naturale, definita come quella ragione naturale che Dio ha stabilito tra gli uomini (di qui la massima: Rex non sub homine, sed sub Deo ac lege).

Gli uomini avevano l’obbligo di obbedire all’autorità del re o del governo civile, tuttavia esisteva un limite alla volontà del re (o del governo civile) in quanto essa doveva conformarsi alla legge naturale. Un individuo od una comunità avevano il diritto di resistere e ribellarsi al tiranno, cioè all’autorità che non rispettava la legge naturale espressione della volontà divina. In questo modo, il cristianesimo occidentale, pur facendo discendere l’autorità politica direttamente da Dio, riconosceva l’importanza del consenso della comunità politica (all’uomo, con la cacciata dal Paradiso, è stata data la capacità di distinguere tra il bene ed il male). A scalzare la concezione teocentrica è intervenuto lo spirito scientifico, il quale si fonda sul concetto di soggettività della conoscenza espresso da Cartesio e sviluppato alle sue estreme conseguenze da Hume: nessuno possiede il monopolio della verità, non esistono cioè verità ultime indimostrabili. Nella nuova concezione antropomorfa, la fonte dell’autorità è il consenso popolare. Al posto della Res Publica Christiana viene posta la nazione ossia l’identificazione identitaria di un popolo in un dato territorio. L’eccesso d’interpretazione soggettiva delle norme porta però al decadimento del principio di certezza del diritto e pertanto l’impostazione entrò presto in crisi. Una volta ripudiata la dottrina del diritto naturale, la scienza giuridica si è trovata ad affrontare il problema della distinzione tra validità giuridica e validità empirica. Il fatto che le norme fossero emanate da parte di un soggetto umano è empiricamente verificabile, tuttavia questo pone il problema di dare una significato alla legittimazione del soggetto medesimo. In altre parole, affermata la validità giuridica in forza della legittimazione del soggetto che ha emanato le norme, necessita definire il concetto stesso di autorità legittima. Allo scopo non può servire un criterio di natura ideologica, poiché il canone ermeneutico perderebbe la sua stessa natura di certezza dogmatica e scientifica, pertanto si è ricorsi in primo luogo ad un criterio di tipo empirico: è potere legittimo quello che è effettivo ossia quello che riesce ad imporsi e governare. I limiti della premessa sono evidenti. Per salvare l’autonomia del concetto di legittimità, la scienza giuridica ha dovuto per forza considerare l’effettività del potere non come una semplice imposizione ma con riferimento ad una ideologia. Costretta pertanto suo malgrado a far ricorso ad un criterio ideologico, senza poter rinunciare alle proprie premesse metodologiche, non è rimasto che fondare la legittimità del potere (e conseguente validità giuridica delle norme dallo stesso emanate) in forza di un criterio eminentemente formale. Sorge in tal modo la difficoltà a stabilire in base a quale criterio la sovranità formale dello Stato e la validità logico ipotetica di un sistema normativo possa conservare il carattere di positività. Il criterio cui la dottrina è ricorsa è ancora una volta quello dell’effettività: uno Stato può dirsi formalmente sovrano od un sistema normativo può dirsi giuridicamente valido, se le norme dallo stesso emanate sono nel complesso osservate ed applicate. Il lettore comprende l’effetto dirompente della premessa: la disapplicazione di norme vigenti in via giurisprudenziale, anche se per motivate ragioni, mina direttamente la sovranità e legittimità dell’ordinamento.

Il maggior teorico della teoria formalistica, il Kelsen, per impedire che le norme singole fossero accertate come valide in base allo stesso criterio di validità dell’ordinamento, ha introdotto un doppio concetto di validità giuridica ed al tempo stesso di positività.

Per Kelsen, un sistema normativo è valido se nel suo complesso è efficace, mentre le singole norme sono valide se poste in essere secondo il procedimento prescritto dalla norma fondamentale (Grundnorm). Questa scuola, sorta in polemica con la dottrina del diritto naturale, ha ritenuto di dover applicare al fenomeno giuridico dei metodi di ricerca propri delle scienze naturalistiche, ritenendo così di addivenire ad un concetto di validità giuridica indipendente da ogni presupposto ideologico.

Sul piano storico culturale, la stessa corrisponde alla preminenza avuta dall’ideologia del positivismo nei confronti di quella del giusnaturalismo. Nella realtà ci si è limitati a sostituire il criterio di origine con un altro, secondo il quale a condizionare l’esistenza storica dell’ordinamento è solo la forza di condizionamento del potere ed a determinare il concetto di validità giuridica sono solo le esigenze della forma e della certezza.

Tutto ciò finisce per negare il diritto stesso come valore. L’esperienza anglosassone si differenzia pertanto da quella continentale proprio sul punto in questione ovvero la c.d. Norma fondamentale. A fronte dell’esigenza di garantire attraverso una Carta dei diritti (Bill of Rights) la capacità di condizionamento della società sull’ordinamento giuridico, nel caso della Grundnorm kelseniana prevale l’esigenza di certezza formale e la carta costituzionale viene raffigura come immutabile e fonte di legittimità dell’ordinamento. Tutto ciò finché le esigenze di verità e contenuto, di pari passo con la crisi dello Stato di diritto, prevarranno su quelle della certezza e della forma. Quanto sopra esposto ci porta ad esaminare gli aspetti di legittimità dell’ordinamento alla luce di quello che il Meneghelli definisce il “miraggio dell’autorità legittima” Chiarita l’inscindibilità del principio di legittimità dell’ordinamento da quello di legittimità dell’autorità che lo emana, serve concentrare l’analisi su quest’ultimo aspetto. Se il potere è forza e coercizione, sottostare ad esso, da parte di chi ha bisogno del suo ordine e della sua pace è necessità, non obbligo. La dogmatica giuridica che pretende legittimo il potere solo perché effettivo, prende atto di questo e rappresenta la giustizia come il premio della forza. La legittimazione dell’autorità è pertanto autoreferenziale in forza della sua effettività. Alcuni autori (Hobbes, Locke, Spencer) hanno ritenuto di attribuire detta legittimità in forza del principio del consenso sociale, esplicito o tacito, il quale renderebbe giusta e legittima la coercizione del potere sulla società stessa. Il diritto del potere ad essere obbedito è il prodotto di una deliberazione, anche tacita, degli individui ovvero il contratto sociale. A ben vedere, il limite della teoria è imposto dalla mancanza di reale alternativa dell’individuo nei confronti della scelta in questione: il problema non è la scelta tra sottomissione o meno, ma è dato dalla realtà di abitudine all’obbedienza. Tuttavia, in base al principio del consenso, le attuali democrazie hanno fondato la propria legittimazione sulla c.d. Sovranità popolare. Il legislatore, delegato dalla volontà popolare in forza della Carta Costituzionale, emana legittimamente norme dal carattere obbligatorio e vincolante per tutti i cittadini (dal principio di effettività ovvero probabilità d’osservanza consegue poi la loro legittimità). La funzione del Giudice, applicatore nel concreto delle norme cui rimane interamente sottoposto, è così ben distinta da quella del legislatore, in quanto la sua legittimazione è derivata dall’ordinamento stesso. Affermare pertanto per via giurisprudenziale l’inefficacia delle norme positive, porta al decadimento della legittimazione stessa dell’ordinamento, per conseguente conflitto col principio di sovranità popolare. In conclusione, l’attività di supplenza normativa da parte della giurisprudenza, pur eventualmente indotta da ragioni di necessità, pone seri problemi di riconoscimento di legittimità alle decisioni stesse, tranne per l’ipotesi meramente coattiva (empiricamente, se la forza è fonte stessa di legittimità, il suo detentore si autolegittima).

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